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I Tarocchi in Letteratura I

Miscellanea - Dal XV al XIX secolo

 

Attualmente 216 saggi storici sui tarocchi e 19 saggi iconologici riguardanti gli Arcani Maggiori di Andrea Vitali sono stati oscurati. I saggi presenti sono posti a titolo dimostrativo. Tutti i saggi saranno disponibili prossimamente in edizione cartacea.

 

Andrea Vitali, marzo 2005

 

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                               Qui tutto è grazia, tutto è beltate.                                Ma tra letizia tanta, e tal gioco, 
                               Felici carte da così tenere,                                             Guardate, o Belle Fanciulle amabili
                               Da così morbide man trattate.                                      Che non tormentovi d'Amore il foco.

                                                                                                   (figura 1)

  Da Le Pitture di Pellegrino Tibaldi e di Nicolò Abbati, descritte ed illustrate da Giampietro Zanotti, Venezia, 1756


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Un errore sul Burchiello

 

Prima di addentrarmi nella disamina dei documenti oggetti della presente indagine, desidero sottolineare l'errore compiuto da alcuni storici dei tarocchi che hanno collegato il termine Triomphi, citato in un sonetto del Burchiello, alle carte dei tarocchi, quando risulta inequivocabile il riferirsi dell'autore ai Trionfi del Petrarca. Le opere del Burchiello (pseudonimo di Domenico di Giovanni) ebbero una grandissima diffusione e rese oggetto di numerose interpolazioni e rifacimenti. Vissuto dal 1404 al 1449, fiorentino e barbiere di professione, la sua bottega divenne un vero e proprio cenacolo d’arte che ospitava poeti e artisti di ogni genere. Intorno al 1440 compose sonetti che furono raccolti sotto il titolo Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca. L’edizione molto tardiva a stampa apparsa con il luogo di pubblicazione Londra (in realtà Livorno) nel 1757 dà per scontato che i sonetti siano opera del Burchiello.


La posizione culturale del Burchiello è chiaramente di beffarda parodia del progetto e dei valori dell'Umanesimo. La sua vera originalità si esprime nei sonetti ‘alla burchia’, probabilmente così chiamati in quanto riconducibili (anche se non direttamente) alla tradizione francese dei versi ‘battellati’ (da burchia: battello, barca), cioè accozzati alla rinfusa come la merce nei battelli fluviali. Ne sono un esempio i celebri versi del suo sonetto più famoso che, per alcuni critici, nasconderebbero doppi sensi di carattere prevalentemente osceno:

 

Nominativi fritti e Mappamondi
e l'arca di Noè fra duo colonne
cantavan tutti 'Kirieleisonne'
per la 'nfluenza de' taglier mal tondi.

 

Per evidenziare l'errore di attribuzione sopra accennato riporto per intero il Sonetto XXXI Se tu volessi fare un buon minuto:


Se tu volessi fare un buon minuto,
togli Aretini et Orvietani e Bessi,
e sarti mulattieri bugiardi e messi,
e fa’ che ciaschedun sie ben battuto;
poi gli condisci con uno scrignuto
e per sale vi trita entro votacessi,
e per agresto minchiatar fra essi
accioché sia di tutto ben compiuto.
Spècchiati ne’ Triomphi, el gran mescuglio
d’arme, d’amor, di Bruti e di Catoni
con femine e poeti in guazabuglio:
questi fanno patire i maccheroni
veghiando il verno, e meriggiando il luglio
dormir pegli scriptoi i mocciconi,
Dè parliàn de’ moscioni,
quanta gratia ha il ciel donato loro,
che trassinando merda si fan d’oro.


Il sonetto si manifesta come una critica contro i buoni da nulla, i finti letterati, i falsi dotti, assolutamente inutili alla società, di cui sarebbe meglio disfarsene. I versi erroneamente interpretati in riferimento ai tarocchi sono i seguenti:

 

Spècchiati ne’ Triomphi, el gran mescuglio
d’arme, d’amor, di Bruti e di Catoni

 

Il verso "Il grande miscuglio d'armi e d'amori" poteva a prima vista dare a intendere che ci si riferisse ai tarocchi: l'Amore si trova raffigurato nel VI trionfo, mentre le armi potevano rimandare alle armature indossate da diversi personaggi dei trionfi. Se si considera ancor più che Catone si ritrova nei cosiddetti Tarocchi Sola Busca, 1 l'attribuzione di questi versi ai trionfi dei tarocchi appariva plausibile. Per comprendere appieno il senso compiuto 2 e cioè che i Triomphi indicati dal Burchiello si riferiscono all'opera del Petrarca e non ai trionfi dei tarocchi, occorre valutare l'insieme dei seguenti versi:

 

Spècchiati ne’ Triomphi, el gran mescuglio
d’arme, d’amor, di Bruti e di Catoni
con femine e poeti in guazabuglio:
questi fanno patire i maccheroni
veghiando il verno, e meriggiando il luglio
dormir pegli scriptoi i mocciconi.

 

Se le ‘femine’ sono presenti nei trionfi non lo sono i poeti che abbondano invece, assieme a una grande varietà di donne, nel Petrarca, ma chiarificatori risultano i versi successivi. Occorre innanzitutto prendere in considerazione il significato di ‘maccherone’, 3 termine che nel Rinascimento significava ‘sciocco’. Rileggiamo pertanto i versi: "Questi [i Trionfi del Petrarca] fanno patire i maccheroni / veghiando il verno e meriggiando il luglio / dormir pegli scriptoi i mocciconi" a significare "I Triumphi, per la loro difficoltà, fanno soffrire gli sciocchi 4 che rimangono svegli d'inverno [data la scarsa intelligenza, occorreva loro tanto tempo per comprendere quanto il Petrarca aveva scritto], e fanno addormentare i babbei sugli scrittoi d'estate". 5 Per comprendere i Triumphi del Petrarca occorreva infatti una mente sveglia e letterata, non sciocca: per quest'ultima sarebbe stato impossibile districarsi in quel grande miscuglio di armi e amori, donne e poeti, Bruti e Catoni che ritroviamo nell'opera. Risolutiva risulta inoltre, per eliminare qualsiasi ipotesi che il termine Triomphi fosse qui riferito al gioco, l’evidenza che nessuno avrebbe giocato a carte sopra gli scrittoi.

 

Un poeta innamorato


Nella Ferrara del XVI secolo due sonetti 6 vennero dedicati alla nobildonna Mamma Riminaldi da uno spasimante che si servì di vari trionfi per descrivere la bellezza della donna e la strategia per conquistarla. Il primo può essere interpretato come una satira burlesca scritta da un innamorato respinto in quanto dedito al gioco dei tarocchi. A lui è stato preferito un suo rivale, un tal Giovanmaria, che tutti considerano uno sciocco. La gelosia, l'invidia e la rabbia dettano all' autore parole piene di acredine sia nei confronti dell'ex amata che del rivale stesso.

 

Primo sonetto

 

Sonetto d’il Paradiso Casa da la S.a Mamore

 

Da la belta di quel leggiadro viso,
Che i cor fa moli, l’intenerisse, e spezza:
Da la superna, e singolar ampiezza
De la via, Che ìl palagio à circonciso:
Da la lor festa, et dolce riso,
Ch’è in quella habitatione a i suoni avvezza:
Da i giochi, et canti pien d’ogni allegrezza
Creder chi si debbe il paradiso:
Ma par che d’altro n’han solo ricetto
Quelli, che maj si perdon ne i tarocchi,
Come è Giovanmaria matto famoso:
Chi li vuol dunque haver degno riposo,
Buon’e, che privo sia d’ogni intelletto:
Poi che ne vano al ciel tutti li sciocchi.

 

Il senso del sonetto può essere così riassunto:

 

La casa della signora Mamma Riminaldi, può apparire senz'altro un Paradiso data la bellezza della padrona di casa, l'ampiezza della strada che circonda il palazzo, i giochi e i canti pieni di allegria che in continuazione vi risuonano; ma in questo Paradiso hanno accesso solo coloro che non giocano a tarocchi, come ad esempio quel ‘matto famoso’ che è Giovanmaria. E se ci entra uno come lui allora risulta evidente che per poter sperare di accedere a questa casa è meglio essere privi di intelletto, poiché tutti gli sciocchi vanno in Paradiso.

 

Secondo sonetto

 

Par che l’angel, la stella, il sol, la luna

 

Par che l’angel, la stella, il sol, la luna
Col mondo, et chi con lui di viver brama,
Odiano la beltà, che il ciel aduna
Nel viso altier de la signora Mama.
Forsi per esser tra le Dee queste una
Che lor spogli del ben, che ‘l valor ama,
O pur, per che ne morte, o ria fortuna
Dal fermo suo voler maj la richiama:
Però dee creder fermamente ognuno
Ch’un spirito malvagio habbia costei
Supposta solamente al Bagattino,
Per poter dire i buon tarocchi mej
Saran, s’avien ch’io giuochi, et questi uno
Vo trarre il Matto che ‘è cervel divino.

 

Traduzione

 

Sembra che l'angelo, la stella, il sole e la luna con il mondo e chi desidera di vivere nella mondanità, odino la bellezza che il ciel concentra nel fiero viso della signora Mamma. Forse per il fatto che lei è una dea fra le dèe e loro sono privi del bene, che il valore ama, oppure perché né la morte né la fortuna avversa mai riescono a scalfire ciò che lei saldamente vuole. Tuttavia, ciascuno deve fermamente credere che lei abbia in sé uno spirito malvagio, che soggiace solamente al Bagattino (un uomo da nulla, un babbeo, molto probabilmente il Giovanmaria del sonetto precedente). Affinché io possa dire che i buoni tarocchi mi favoriranno è necessario che io giochi con questi e che estragga una carta: il matto che è cervello divino.

 

Il divin Aretino


Altro importante letterato che scrisse sui tarocchi è Pietro Aretino. La sua opera Le carte parlanti 7 è composta in forma di dialogo fra le carte, appunto parlanti, e l’artista che le aveva dipinte, chiamato il Padovano dal suo luogo d’origine. In essa, apparsa all'inizio con il titolo Dialogo del divin P. Aretino nel quale si parla del giuoco con moralità piacevole, l’Aretino propone anche una disamina del significato dei trionfi in cui traspare, accanto a un evidente sarcasmo, un atteggiamento di rispettoso ossequio verso le carte e il gioco. Infatti, qualora utilizzato con giusta moderazione, il gioco delle carte viene esaltato sotto molteplici aspetti in quanto capace di insegnare la costanza, la perseveranza, l’attenzione, a saper vincere e a saper perdere, ad amministrare con oculatezza il denaro e a rischiare il giusto.


La sua interpretazione dei trionfi trae ispirazione soprattutto dalle emozioni dei giocatori e dalle conseguenze che il gioco induce nei suoi praticanti, risultando in alcuni casi di grande interesse con contenuti di carattere pressoché dottrinale, come ad esempio troviamo in riferimento agli astri (Sole, Luna, Stelle), alla Giustizia e all’Angelo, alla Torre e alla Papessa. A proposito dei tre luminari e dei segni zodiacali presenti nei tarocchi fiorentini, accanto a una valutazione coerente con la omogeneità interpretativa della maggior parte dei trionfi (in questo caso che il gioco si praticava a ogni ora del giorno e della notte e in ogni luogo), troviamo anche il concetto che “non si rompe un bicchiere quaggiuso che nol permetta chi sta là suso”, motivo per cui “il Cielo interviene nel collegio” delle carte. La presenza della Giustizia e dell’Angelo vengono definiti come necessità: la prima per fuggire gli inganni e il secondo quale beatitudine riservata a coloro che hanno vissuto nella sofferenza. Alla Torre, qui chiamata “Magione di Plutone” viene assegnata un valore di insegnamento morale in quanto il dio degli inferi “trascina a casa maledetta qualunque manca alla prudenzia, alla temperanza e alla fortezza che si figura nelle carte”. Interessante la valutazione della Papessa da cui risulta un rapporto inequivocabile con la papessa Giovanna. Scrive infatti l’Aretino che essa “è (posta, n.d.r) per l’astuzia di quegli che defraudano il nostro essere con le falsità che ci falsificano”. Anche se oggi occorre attribuire alla carta della Papessa il significato di fede cristiana, in riferimento alla scala mistica che connota l’insieme dei 22 trionfi, risulta evidente come il mito della papessa Giovanna fosse ben presente nell’immaginario collettivo degli uomini del Rinascimento.


Utilizzando i tarocchi, l'Aretino compose anche una famosa satira (qui al paragrafo Le satire) e menzionò i tarocchi nella commedia La Talanta strutturata in cinque atti d'ispirazione terenziana (Eunuchus) e plautina (Miles gloriosus e Menaechmi), commissionata all’Aretino dalla Compagnia veneziana dei Sempiterni e rappresentata a Venezia nel 1542 con le scenografie del Vasari. La scena si svolge a Roma e narra la storia di una moderna Taide, Talanta, corteggiata da quattro uomini di diversa età e condizione sociale: il giovane Orfinio, il vecchio messer Vergolo (veneziano), l'anziano Tinca (napoletano) e Armileo (romano). Quest’ultimo finge di amarla per frequentare la sua casa, dove vive schiava Stellina, la fanciulla di cui è realmente innamorato. Dopo rapimenti, fughe, prigionie, travestimenti e un'agnizione 8 finale, Talanta concederà il suo amore disinteressato a Orfinio. A seguire l'inizio della scena XII dell’atto III, dove il capitano Tinca dialoga con il parassita Branca:

 

Tinca: A ferirmi tu? volsi dire, afferrimi tu?
Branca. Mi vi pare havere.
Tinca: Io le ne ho donata prima perch'io l'amo, et poi per tormi dinanzi il pericolo di lo havermi a condurre in duello con non so chi Armileo, che la civettava d'ogni hora.
Branca: Me ne ero accorto, per essermene avisto.
Tinca: Bè il dono le ha cavato l' anima eh?
Branca: Non si potrebbe dire.
Tinca: Quei poveracci, che le portar le altre cose renegavano ah?
Branca: Pensatel voi.
Tinca: Rodevano i catenacci dentro in casa, o pur di fuora?
Branca: Da ogni banda.
Tinca: Che gratie rendette ella a coloro, che le mandarono i presenti?
Branca: Quelle, che renderebbe il Tevere a chi ci gettasse dentro un tesoro .
Tinca: Magnificando solamente la mia magnifica magnificentia eh?
Branca: Padre sì.
Tinca. Toccossi punto de le mie prove?
Branca: Non ne ragguaglio per non parere adulatore.
Tinca: Le paion grande n'è vero?
Branca. Grandissimi.
Tinca: Adunque ella mi tiene per uno Hettor trojano?
Branca: Più anchora.
Tinca. Stimandomi fortemente?
Branca: Ben sapete.
Tinca: Me ne congratulo.
Branca: Havete ben ragione di farlo.
Tinca: Di donde si cominciò il ragionamento?
Branca: Da l'organo de la voce, e dice che bisogna che le orecchie, che l'ascoltano habbino un bon nerbo.
Tinca. Sua Maestà la commendò quasi in simil senso.
Branca. Per vostra fe?
Tinca: Dicendo, che ella rimbombava ne i petti, come i tuoni ne l'aria.
Branca: Sua altezza vorria sentirvi fare un proemio a lo essercito.
Tinca: Ella diventarebbe una Marfisa udendo ciò, peroche la mia coeloquenza metteria core a i tarocchi.
Branca: Bella similitudine! 9

 

Nel penultimo verso, il capitano Tinca afferma di possedere un’eloquenza talmente persuasiva in grado di dare animo persino ai tarocchi “perocchè la mia coeloquenza metteria core a i tarocchi”. Qui, per tarocchi, è da intendersi “furfanti”, ma anche persone folli, stupide, idiote, senza sentimenti. 10

 

Il maccheronico Merlin Cocai


L’indiscusso maestro del genere letterario cosiddetto maccheronico, cioè il mantovano Teofilo Folengo che scriveva sotto lo pseudonimo di Merlin Cocai, ci offre nell’opera Chaos del Tri per uno, ovvero dialogo delle tre etadi una delle primissime testimonianze dell’uso divinatorio con i trionfi. Triperuno racconta al suo amico Limerno di essere stato condotto il giorno precedente da quattro persone in una stanza “ove, trovati c’hebbero le carte lusorie de trionphi, quelli a sorte fra di loro si divisero e, volto a me, ciascuno di loro la sorte propria delli toccati trionfi mi espose, pregandomi che sopra quelli un sonetto gli componessi”. Le quattro divinazioni in versi sono seguite da un quinto sonetto, anch’esso incentrato sui tarocchi. Il sonetto che Triperuno compose per Giuberto, sulla base delle carte da lui estratte e cioè la Giustizia, l’Angiolo, il Diavolo, il Foco e l’Amore, viene così spiegato: il fuoco d’amore, anche se apparentemente è un angelo, in realtà è un diavolo, per cui dove esiste la malizia non può esserci la giustizia.


Giustitia. Angiolo. Diavolo.
Foco. Amore.


QUando 'l Foco d'Amor, che m'arde ogn’hora
Penso et ripenso fra me stesso i dico,
Angiol di Dio non è, ma lo Nemico,
Che la Giustitia spinse del ciel fora.
Et è pur chi qual Angiolo l'adora,
Chiamando le sue Fiamme dolce intrico,
Ma nego ciò, che di Giustitia amico
Non mai fu, ch’in Demonio s'innamora.
Amor di donna è Ardor d'un Spirto nero, Dux malorum fæmina,
Lo cui viso se 'n gli occhi un Angiol pare, et scelerum artifex. Sen. [Seneca]
Non t'ingannar, ch'è fraude et non Giustitia.
Giustitia esser non puote, ove malitia
Rispose de sue Faci il crudo Arciero,
Per cui Satan Angiol di luce appare. 11


Nel quinto sonetto si trovano elencati, anche se in ordine sparso, tutti i 22 trionfi:


Amor, sotto 'l cui Impero molte imprese
Van senza Tempo sciolte da Fortuna,
Vide Morte su’l Carro horrenda et bruna
Volger fra quanta gente al mondo prese.
Per qual Giustitia (disse) à te si rese
Né Papa mai, né s' e, Papessa alchuna?
Rispose, chi col Sol fece la Luna
Tolse contra mie Forze lor diffese.
Siocco, qual sei è quel Foco (disse amore)
Ch'hor Angiol’ hor Demonio apparo, come
Temprar sanno si altrui sotto mia Stella. Venere
Tu Imperatrice a i corpi sei, ma un cuore
Benche Sospendi, non uccidi, è un nome
Sol d'alta Fama tienti un Bagattella. 12

 

Le satire


Un ulteriore aspetto letterario incentrato sui tarocchi fu quello della satira. Fra le carte raccolte da Paolo Giovio (1483-1552) si trova un anonimo Gioco da tarochi fatto in conclavi 13 riferito al momento dell’elezione di Gianmaria Ciocchi del Monte che assunse il nome di Giulio III (7 febbraio 1550). La satira, in forma di sonetto, rappresenta una partita a tarocchi giocata dai cardinali: chi avrebbe ricevuto la carta del Papa lo sarebbe diventato. Ma come per il sonetto dell’Aretino, riportato in seguito, la carta del Papa sembrò essere scomparsa dal mazzo a significare che nessuno degli astanti era degno di assurgere al trono di Pietro. Su questo conclave si espresse anche un anonimo autore che prendendo spunto da Pasquino, un torso ellenistico posto in un canto di Palazzo Orsini in Parione a Roma, divenne relatore degli attacchi antipapali e anticlericali in genere, sia in occasione del 25 aprile, festa di san Marco, sia in numerose altre ricorrenze: “Pasquino dice che li cardinali giochano a tavolero in conclavo e che el meglio saria che giocasseno alle carte de tarochi: et ha despensato li tarochi a tutti, alcuno ge ha dato la morte, alcuno el matto, et sic de singulis li ha favoriti tutti”. 14 In effetti, la satira o pasquinata, termine quest’ultimo derivato da Pasquino, aveva una sua ragione d’essere dato che l’elezione del nuovo papa venne minacciata dai vescovi francofoni che miravano a riportare la sede papale ad Avignone, dove lo era stata un tempo:

 

"Venerdì a dì 17 ditto [zenare = gennaio]. […]. Nova da Bologna venuta da Roma come li R.mi cardinali imperiali e altri italiani hano fatto una coniura de non fare papa sino non se ha la risposta dalla M.tà del imperatore e questo perchè li cardinali francesi voleno fare uno papa alle sue voglie e tirare la corte in Franza come già feceno che la stette in Avignon circa anni 70". 15

 

L’Aretino compose la Pasquinata per l’elezione di Adriano VI 16 in occasione del conclave del 1521. Apertosi il 27 dicembre si concluse il 9 gennaio 1522 con la nomina al soglio pontificio di Adriano Dedel (Adriano VI). Poiché nessuno dei cardinali sembrava ottenere la maggioranza necessaria per la nomina, l’Aretino scrive che si decise di far scegliere a ciascuno di loro una carta di tarocchi e che sarebbe stato nominato papa chi avesse estratto la carta omonima. Dei trentanove cardinali effettivamente riuniti in quel conclave, l’Aretino ne scelse ventidue fra quelli che più speravano di essere eletti. Nonostante ciò, una volta distribuite le carte, quella del Papa non si ritrovava. L’Aretino conclude il suo componimento scrivendo che i cardinali, vista la mancanza della carta del Papa fra quelle distribuite, decisero che sarebbe diventato papa colui che l’avrebbe trovata. I cardinali si alzarono quindi dai propri seggi e si mossero per cercarla e così l’Aretino conclude la storia: “Mentre ciascun si prova, / Mantoa, Siena, Farnese andando a spasso / una carta trovorno, ma fu un asso”.

 

Venti duo cardinal senza romore
giucavano a tarocchi in la lor cella;
fe' Medici e mischiò, poi diè la stella
a Farnese, ad Egidio il traditore;
a Santa Croce diè lo 'mperadore,
Vico ebbe il sol, Grimano il bagatella
Grassi l'imperatrice e poi la bella
papessa Como, Mantova l'amore.
Ancona il mondo e l'angelo l'Orsino,
il matto Siena e Monte ebbe la luna,
la iustizia Colonna, el Soderino
il diavol, Flisco ruota di fortuna
Punzetta il vecchio, il carro l'Armellino,
la casa il frate in vesta bianca e bruna,
san Francesco n'ebbe una,
ciò fu tempranzia e Jacobacci morte,
Santi Quattro fortezza e stavan forte.
In questo furon scorte
le carte e restò Medici una crapa,
quando s'avvide ch'era fatto papa.
Onde smorto qual rapa,
disse: "Il papa mi tocca e non lo tegno."
Rispose il Soderin: "Non ne se' degno."
Mossonsi tutti a sdegno,
e tra lor ferno questa legge nuova,
che papa sia quello che lo ritrova.
Mentre ciascun si prova,
Mantoa, Siena, Farnese andando a spasso,
una carta trovorno, ma fu un asso.

 

L’Ariosto satirico


Mentre della Cassaria dell'Ariosto ho scritto altrove, 17 parlerò in questa sede delle sue Satire, composte in terzine fra il 1517 e il 1525. Se il modello, per lo stile di vita è il grande poeta latino Orazio, inconsueto a quei tempi, lo stile letterario si eleva nei brani autobiografici dove espressione e linguaggio si fanno ancor più incisivi, indignati e risentiti. L’analisi è tanto ampia da costituire, secondo Cesare Segre, il più autorevole studioso delle Satire ariostesche, una ‘rappresentazione’ conforme alla realtà del bene e del male, ad esempio a proposito della corruzione politica e amministrativa dei tempi. La satira VII, elaborata in Garfagnana, venne indirizzata a Bonaventura Pistofilo, segretario del duca Alfonso d'Este I. In essa l'Ariosto spiega il suo rifiuto di diventare ambasciatore presso papa Clemente VII, esprimendo al contempo tutto il suo desiderio di vivere serenamente nella sua amata Ferrara. I versi 46-54 offrono una descrizione straordinaria della Ruota della Fortuna, simile in tutto all'omonima incisione attribuita ad  Albrecht Durer, mentre nei Tarocchi Colleoni-Baglioni e Brambilla il personaggio che siede sulla cima della ruota è connotato da orecchie d'asino, orecchie che spuntano anche alla figura che ascende.

 

 

Ruota Durer

 

Albrecht Dürer (1471-1528) ?, Ruota di Fortuna,

da Sebastian Brant, Das Narrenschiff, Basilea, 1483

 

 

Satira settima

 

Quella ruota dipinta mi sgomenta; 
Ch'ogni mastro di carte a un modo finge.
Tanta concordia non cred’io che menta.

 

Quel che le sied’ in cima; si dipinge
Un’ Asinello. Ogn’un lo enigma intende, 
Senza che chiami a interpretarlo sfinge

 

Vi si vede ancho, che ciascun che ascende
Comincia a in asinir le prime membre;
Et resta humano quel che adrieto pende. 18 

 

Due letterati ferraresi


Due preziosi documenti della metà del Cinquecento riguardano il gioco dei tarocchi a Ferrara. Si tratta di composizioni poetiche scritte da un celebre letterato del tempo, Flavio Alberto Lollio e dal suo amico Vincenzo Imperiali. Entrambi i testi si trovano nello stesso manoscritto (ms. 257, cc. 30) presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara. La prima è l’Invettiva contra il giuoco del tarocco del Lollio, la seconda la Risposta all’invettiva dell’Imperiali. Il Lollio descrive in tono scherzoso a tre giocatori una mano sfortunata ai tarocchi, nella quale avevo perso molti scudi. Maledice quindi il gioco e il suo inventore con toni accesi, affermando “Ond’è seguito dalla gente vana, / Da scioperati, et da color, che spesso / Per non saper che far, la vita istessa / Hanno in fastidio, tal, che dall’accidia / Vinti, dormire, ò giocar son costretti”. 19 Nella seconda composizione, l’amico Imperiali reinterpreta quella mano sfortunata per magnificare il gioco dei tarocchi e accusare il Lollio di avarizia. Del testo del Lollio, traduttore dal latino, sostenitore del toscano nell'annosa questione della lingua, oratore, filantropo e mecenate, ricordato dal Guarini come “filosofo eccellentissimo e di gran fama, il quale compose diverse opere per la sua dottrina stimate molto, e in particolare una Orazione della villa molto celebrata”, si riporta il passo dove, condannando il gioco dei tarocchi, dimostra la sua eccellente perizia letteraria:


Quante volte non puoi coprire il Matto, (1)
Tal, che mal grado tuo, spogliar ti vedi
Del buon c’havevi; et sembri la Cornacchia,
Che restò spennacchiata infra gli uccelli?
Alhora, se tu fossi un’Aristide,
Un Socrate, un Zenone, un Giobbe, un sasso,
Tu spezzeresti il fren della patienza,
Stracciaresti i Tarocchi in mille pezzi,
Maladicendo il primo che ti pose
Mai carte in mano, e t’insegnò giocare.
Dove lass’io l’annoverar noioso,
D’ogni Trionfo ch’esca fuori? o quanto
Fastidio hai tu di questo! che non puoi
Pur ragionar, pur dire una parola:
Anzi servar convien maggior silentio,
Che non si fa alla Predica, ò la Messa. 20

 

(1) coprire il Matto = Il Matto non avendo potere di presa sulle altre carte, non viene giocato sul tavolo, ma mostrato da parte del giocatore che lo possiede e poi rimesso nel proprio Tallone di Presa. Questa operazione viene chiamata “Coprire il Matto”.

 

Lollio era un abile giocatore che dedicava gran parte del suo tempo libero ai tarocchi. I suoi compagni di gioco erano il podestà e il cardinale Giulio, tutti degni di ogni riguardo. Altri giochi avrebbero meritato forse le sue critiche. Dallo sfogo del Lollio, dettato dal sentimento per aver perso una partita, si evince un ribaltamento delle convinzioni che vedremo in seguito riportate dal Berni, il quale, scrivendo sui tarocchi a Roma, li considerò maggiormente adatti ai plebei e ai contadini. Scrive al riguardo Imperiali:



Ma il Tarocco se ben è un giuoco antico,
Non è per invecchiar, cotanto è bello,
Giuoco da far, et non disfar, l’amico. 21

 

e ancora

 

Ma il giuoco del Tarocco è da Signori,
Principi, Re, Baroni, et Cavalieri,
Per questo è detto il giuoco degli honori (1). 22

 

(1) honori = combinazioni di carte alte che venivano accusate, ovvero dichiarate di avere dai giocatori.


Primiera contro tarocchi

 

Francesco Berni (1497-1535) fu scrittore e poeta. La reazione di papa Adriano VI (Adriano Florenz) a cui il Berni aveva indirizzato le sue Satire, costrinse lo scrittore a lasciare Roma, dove viveva ospite del parente cardinal Bibbiena. Morì avvelenato nella sua Firenze, dove prestava servizio presso il cardinale Ippolito Medici, coinvolto in un intrigo di corte. Aveva 38 anni. La sua rappresentazione della cruda realtà, come la peste e i vizi della gola, presentata con toni scherzosi ma mai volgari e con stile e linguaggio aulico, gli fecero derivare il genere letterario chiamato “Capitolo Bernesco”, imitato in seguito da molti autori arcadici e romantici.


Ai nostri fini l’interesse riguarda il componimento Capitolo del gioco della primiera dove l'autore compie una panoramica sui giochi del tempo. Accanto all' esaltazione di quel gioco, troviamo alcune formulazioni negative di altri giochi, come nel passo seguente dove l’asserzione di un giocatore che considera i tarocchi “un bel gioco” offre lo spunto per sottolinearne il contrario:

 

"Un’altro più piacevole di costui per intrattenere un poco piu la festa, et dar piacere alla brigata, a guardare le dipinture [le figure impresse nelle carte], ha trovato che’ TAROCCHI sono un bel gioco, et pargli essere in regno suo quando ha in mano un numero di dugento carte che a pena le puo tenere, et per non essere appostato le mescola cosi il meglio che puo sotto la tavola, viso proprio di tarocco colui a chi piace questo gioco, che altro non vuol dire Tarocco che ignocco, sciocco, Balocco degno di star fra fornari et calzolari et plebei a giocarsi in tutto dì un Carlino in quarto a tarocchi, o a trionfi, o a Smischiate che si sia, che ad ogni modo tutto importa minchioneria et dapocaggine, pascendo l’occhio col sole, et con la luna, e col Dodici come fanno i puti". 23

 

In un successivo passo celebrativo della primiera, il Berni scrive:

 

"...siami concesso non per affermare ma per istimare, o imaginare, dir che io per me credo che la denominatione di questo nome sia dedutta dal valore et dalla nobiltà della cosa, ne per altro essere chiamata primiera che per essere prima e principessa addir così di tutti gli altri giochi. et addire il vero qual’altro ha piu grandezza, piu galanteria, piu generosita, et piu liberta di questo? ne la ronfa, ne la cricca ne i trionfi, ne la Bassetta ha afar cosa del mondo con esso. questo e fastidioso, questo ignobile et da brigatelle, quest’altro troppo simplice quell’altro troppo bestiale, sola la Primiera e piacevole, nobile, figurata et a dir cosi buona compagna, et con tanta destreza fa le cose sue che se ella facesse altrui tutto il mal del mondo, bisogna che l’huomo le resti schiavo, si come di sotto dice il Poeta. S’io perdessi a Primiera il sangue et gli occhi, non mene curo. et una grandissima prova della sua grandeza, e che i gran Signori a Primiera giocano et non ad altro gioco o rarissime volte". 24

 

E ancora:

 

"Lasciati da banda quelli che costoro vogliono reggersi immediate dall’ingegno, non dalla fortuna, come dire li scacchi et la palla, ancor che quello sia da pedanti, questo tenga un poco del facchino insieme con li altri di questa sorte, senza numerar quelli di che, e il ragionamento nostro, che troppo lungo calendario saria, concluderemo nessuno essere che, per vicinanza, o parentado che habbi con madonna Primiera sia degno, ove si consumi un’hora di tempo piu presto che in ogni altro disutile exercitio. Habbinsi la Cricca gli Sbirri, i Trionfi piccoli i Contadini, il Flusso et il Trentuno le Donne, il Tricchetracche o il Dormiresti addosso a Papa Iulio che lo trovo, Noviera, Sestiera et Quintiera i troppo speculativi ingegni che non contenti de’ confini di questo esercitio, hanno trovate queste gentilezze. per andare un poco più oltre, finalmente tutti li altri che ne mi soccorrono, ne voglio perder tempo in numerare, siano di chi sene diletta senza concorrente liberamente, facciasi Madonna Bassetta innanzi che sele tira cosi forte, che le pare esser qualche grand’huomo. Che ne dice il poeta nostro?

 

Chi dice, egliè piu bella la Bassetta
Per essere presto & spacciativo gioco,
Fa un gran mal a giocar, segli ha fretta. 25

 

L’asserzione del Berni che restringe la cerchia dei giocatori di tarocchi ai plebei, contadini e calzolai, appare in evidente antitesi con le affermazioni dell’Imperiali nella sua Risposta all’Invettiva del Lollio.

 

Drammi rusticali


Al contrario degli autori colti che scrivevano poesie, racconti e commedie classicheggianti, gli artisti popolari davano sfogo alle loro inclinazioni componendo strambotti, elegie e commedie rusticali, ed erano loro stessi che le recitavano nelle piazze per il divertimento del pubblico meno raffinato. I drammi rusticali raccontano storie di popolani e di villici alle prese con grandi e piccoli problemi quotidiani. La maggior fioritura di questo genere letterario si ebbe nel Cinquecento, soprattutto presso la Congrega dei Rozzi di Siena, il cui linguaggio recuperava esperienze fiorentine tardo-quattrocentesche, come la Nencia di Barberino attribuita a Lorenzo de' Medici. Il motto della Congrega inscritto nello stemma è quanto mai eloquente al fine della comprensione dell’intento dei soci: “Chi qui soggiorna acquista quel che perde”, a significare che chi entrava nella Congrega assumeva il titolo di Rozzo e perdeva, attraverso la sua frequentazione, ogni traccia di ignoranza e zoticaggine. Papa Leone X invitò più volte a Roma alcuni Rozzi per dilettarsi con le loro facezie a dimostrazione della grande notorietà che, fin dagli inizi, i suoi membri avevano ottenuto.


Fra i componimenti più importanti del genere ricordiamo La Catrina (c. 1530) di Francesco Berni, La Tancia (1611) e La fiera (1619) entrambe di Michelangelo Buonarroti il Giovane, l’Adone (1623) di Giovan Battista Marino, il Bacco in Toscana (1666) di Francesco Redi, il Lamento di Cecco (c. 1700) di Francesco Baldovini e l'Assetta (c. 1750) di Francesco Mariani.


Due sono gli autori che interessano a questo studio: Michelangelo Buonarroti il Giovane con il componimento La Tancia e Francesco Mariani, autore dell’Assetta. Il primo, detto il Giovane, per distinguerlo dal famosissimo omonimo di cui era pronipote, visse a Firenze tra il 1568 e il 1646. Dotato di una buona vena poetica fece parte dell'Accademia fiorentina e della Crusca (con lo pseudonimo di Impostato), prodigandosi nella compilazione della prima e seconda edizione del Vocabolario. Dal gusto linguaiolo, che aveva avuto modo di affinare attraverso l’esperienza di cruscante, nasce La Tancia, commedia rusticale in versi in ottava rima rappresentata a Firenze nel 1611. Nella scena quinta del quinto atto, il villano Ciapino racconta un sogno in cui lui e un suo amico venivano percossi. Seppure l’espressione “E attendea pure a trionfar bastoni” stia a significare che il villano si aspettava di incorrere in altre solenni bastonate, Giulio Ferraro, che curò nel 1812 un’edizione dell’opera, fece derivare i versi sopracitati “dalla carta di bastoni nel giuoco di carte, forse quello che si diceva Trionfetti". 26

 

Ciap. Storditi ci rizzammo, e barcolloni,
Chiamando ajuto, e non sentiva ‘gnuno;
E attendea pure a trionfar bastoni.
Noi correvamo stretti a uno a uno,
Perchè n'eramo li fra due ciglioni. 27


L’Assetta del Mariani fu pubblicata verso il 1750. Parroco di Marciano, l’autore (il cui soprannome da membro della Crusca era l’Appuntato), compose oltre all’Assetta anche Le nozze di Maca, ambedue accolte favorevolmente dalla critica. Questi i versi che aprono la scena II del secondo atto dell’Assetta, dove l’autore ricorre a una analogia col gioco delle carte per descrivere una situazione in cui era incorso. Fra gli altri troviamo l’espressione “dare il marcio”, termine utilizzato nel gioco delle carte del tempo a significare (secondo le annotazioni di Giulio Ferraro): “vale posta doppia; figurato: diciamo dare il marcio quando conseguiamo la cosa desiderata, dicendosi a suo marcio dispetto, vale a suo doppio dispetto”.

 

Tano solo

 

Non c'è dubbio nissuno, ho buono in mano,
Ma una carta mi dà perso il giuoco,
E a arristiarla voglio andar pian piano.
S' è già fatta la scritta, e non è poco,
Ma chel che importa poi a dar il marcio,
Ulivetta chell'è ch'attizza il fuoco.
Chesta cartaccia sola mi dà impaccio,
Che Masa non ne vuol sentir covelle,
E però niente strengo, e ‘l tutto abbraccio.
Che giova aver le carte buone e belle,
Se la peggior che sia in tu le carte
Ammazza il Re, Cavagli, e fantinelle?
Ora bisogna far un cuor da Marte,
E giocarla di testa, e a ragione,
E porci tutto il ceravello e l'arte. 28

 

Le commedie di Giovan Maria Cecchi fiorentino

 

Il notaio e commediografo Giovan Maria Cecchi (Firenze, 1518-1587), fu assai vicino alla famiglia dei Medici per la quale svolse importanti uffici pubblici. Da grande amante della lingua toscana scrisse diverse opere utili alla comprensione del linguaggio fiorentino di quei tempi, una raccolta di poesie, un Sommario de’ magistrati di Firenze (1562) e Per una storia istituzionale dello Stato fiorentino. La sua fama è legata alla produzione di una cinquantina tra commedie, intermezzi scenici, drammi e farse spirituali. Le sue ventun commedie furono composte a imitazione di quelle latine, ma con un occhio attento al mondo presente, tanto da renderle importanti documenti di vita familiare e sociale dei suoi tempi. Scrisse anche commedie originali, fra cui L’assiuolo e Il diamante.


La commedia Il corredo, pubblicata a Venezia nel 1585 “appresso Bernardo Giunti”, si configura di grande interesse soprattutto per la conoscenza dei costumi e degli indumenti femminili cinquecenteschi. L’azione, che si svolge ovviamente a Firenze, riguarda il reperimento di un corredo di nozze, tra fraintendimenti e contrarietà dei protagonisti. La drammaturgia si ispira all’antico come scrive l’autore nel preambolo: “La Comedia è in Firenze, & il proscenio ve lo dimostra. Il caso è nuovo, ma però già accaduto in parte in Grecia”. Nella scena sesta dell’atto terzo, in occasione di un dialogo fra Hercole, un bravo, e Pecchia, suo adulatore, l’autore mette in bocca al primo un’espressione con la quale intende sottolineare la propria importanza: “Io ero tra loro (come si dice) il Matto ne’ Tarochi”, divenuta un modo di dire tipico nel Rinascimento, come suggerisce la frase “come si dice”, posta fra parentesi. Da questa espressione si evince che la carta del Folle era considerata molto importante, come lo era questo Ercole tra le donne, in quanto il più richiesto, come il sale nei banchetti.


Hercole, e Pecchia


Her. Per dirne il vero io ho (e con le donne
Massime) grazia, Io mi ricordo in Francia,
Ch’i non potevo liberarmi punto
Da quelle Monami grassotte, a fede
Da Capitano, ch’io havevo talhora
Per il tanto baciar logoro il viso,
Come in Ispagna le mani. Ma canchero
Quelle Spagnuole nel baciar le mani
Mi succiavan le anella come Zingane.
Pec. Non maraviglia, che ancora gli huomini
Di cotesta nazione, bacion le mani.
E vi fanno trovar sugo. Her. E a Napoli?
Che mi facevan quelle Gentildonne?
E quelle Principesse? E se e’ ve n’è,
Non se ne parli, Io ero tra loro (come
Si dice) il Matto ne’ Tarochi: e ’l sale
Delle vivande loro, e de’ banchetti.
Pec. Oh io ho sentito dire, che e’ vi si fa
Bravamente all’amore? H. Io ti dirò. 29

 

L'espressione “Come il Matto ne’ Tarochi” ebbe vita lunga dato che ancora a fine Settecento veniva utilizzata. Fu citata, ad esempio, in una delle Lettere famigliari del letterato Giuseppe Baretti, stampate a Londra nel 1779 e in seguito pubblicate a Milano nel 1822 nel volume Scritti scelti, inediti o rari di Giuseppe Baretti con nuove memorie della sua vita, dove, nella parte seconda, sotto il titolo di Lettere descrittive, la prima lettera riguarda la Descrizione di Londra. L'autore a proposito della basilica di Westminster così si esprime fra le altre considerazioni:

 

"La Cattedrale di Westminster, cioè la Badìa, s’ha pure anch'essa la sua considerevole magnitudine, quando non si paragoni al nostro Duomo di Milano, che la vince a più doppj, vuoi in misura, vuoi in marmi, o vuoi in adornezza. La Badìa è d'architettura gotica, e bujamente maestosa, comechè d'uno stile diverso da quello del nostro Duomo. Chi ne fosse l'architetto non lo so. Gli è in esso che sono riposti i cadaveri di molti Re, di molti letterati, di molti guerrieri e di molti artefici singolari e famosi a' loro dì: La più parte degl'insigni poeti inglesi hanno quivi o l'ossa, o la statua, o il busto, o almeno una lapida. Fra di essi, come il matto ne' tarrochi, v' è Saint-Evremond, 30 francese, di corta suppellettile 31 tanto in filosofia quanto in poesia. Un suo aulico inglese lo fece seppellire in essa, pagando non so quanti danari. E qui bisogna dirvi che l'onore di far sotterrare se stesso o altri in quella celebre Badìa si paga a contanti". 32

 

Nel prologo di un'altra sua commedia "in cinque atti e in versi" dal titolo Gli sciamiti, 33 Cecchi evidenzia come le commedie siano simili al gioco dei germini, cioè delle minchiate, in quanto ambedue necessitano di un parlare piano e forte, come meglio aggrada ai lettori e ai giocatori:

 

Saper sol questo: che questo proscenio,
Per oggi, è Siena ricca: e per tal segno
Vedete il Mangia (1) là su, che sta in bilico
Per sonar l' ore; ma per non far strepito
Se n' asterrà per oggi, come bramano
Che facciate ancor voi," uditor nobili
E grazïosi, in mentre che si recita.
Chè recitata, ciaschedun sia libero
Di dire e piano e forte anco il suo animo.
Chè le comedie son simili a' Germini,
Il giuoco delli quali è bello e piacemi
Solo per il gridare, e per le dispute
Che si fanno, fornito il giuoco. Oh eccovi
Fuori un innamorato, che principio
Darà all' argomento della Favola.
Io vi lascio con lui. Dio vi feliciti. 34

 

(1) Mangia = "Il Mangia era una figura che prima fu di legno, poi di metallo, e in ultimo di pietra, la quale stava in cima della torre della Piazza del Campo di Siena, e con un martello che aveva in mano sonava le ore" (Nota di Gaetano Milanesi curatore di un'edizione delle Commedie pubblicata a Firenze nel 1856, p. 290).

 

Nella prima scena dell’atto secondo della stessa commedia, un ragazzo di nome Lucciola rivolge a un vecchio, che era stato derubato, un augurio con chiara allusione alle carte delle minchiate:

 

Lucciola: Oh datti il tredici, (1)
E te ne possa portare il quattordici! (2)
Ed a quell’altro caschi addosso il quindici. (3) 35

 

(1) il tredici = la Morte
(2) il quattordici = il Diavolo.
(3) il quindici = la Torre.

 

Un'ulteriore menzione ai germini si trova nella scena ottava dell'atto secondo della commedia Il diamante, dove in un dialogo fra tre personaggi Cecchi fa dire a uno di questi di nome Mosca le seguenti parole:

 

Mosca. Qui si legge del nostro libro. Diavolo
Fallo!... che in sua vecchiaia e' muti spezie,
E che e' diventi il ventotto de Germini. 36

 

Versi che in italiano corrente significano: "Qui si parla del fatto nostro. Rendilo triste. Mi auguro che da vecchio la sua vita cambi, e che diventi cornuto". Poiché la carta ventotto dei germini (minchiate) è il Capricorno, che riporta la figura di un becco o di un capro, diventare il ventotto dei germini significa essere fatto becco. 37

 

Giovan Battista Marino

 

Giovan Battista Marino nacque a Napoli il 14 ottobre 1569 e morì nella stessa città il 26 marzo 1625. Considerato uno dei massimi rappresentanti della poesia barocca italiana, creò uno stile diffusosi con il nome di Marinismo. I suoi componimenti, esasperando gli artifici del Manierismo, si incentravano su un uso intensivo delle metafore, delle antitesi e di tutti i giochi di rispondenze foniche, a partire da quelli paretimologici, sulle descrizioni sfoggiate e sulla molle musicalità del verso. Nel Settecento e l’Ottocento la fortuna di Marino decadde: le sue opere vennero infatti considerate fonte e simbolo del malgusto barocco, per essere poi rivalutate nel corso del sec. XX (fu molto ammirato da Benedetto Croce) in seguito alla rinascita dell'interesse per i procedimenti analogici della poesia. Fra il 1602 e il 1614 compose più di novecento componimenti, in prevalenza sonetti, raccolti sotto il titolo La lira. In uno di questi l’autore attribuì il significato di matto dei tarocchi a un suo conoscente, non certo da lui ben voluto:

 

Fischiata XXXI

 

Murtola tu ti stilli, e ti lambicchi
Quel cervellaccio da giocar à scacchi,
E da far horioli, et Almanacchi,
E ti sprucchi, collepoli, e rincricchi.

 

Mà, mentre in tutti i buchi il naso ficchi,
E con tuoi versi tutto ‘l mondo stracchi,
Ognun t’appende dietro i tricchi, tracchi, 38
E ti manda à la forca, che t’appicchi.

 

O grand’ Archimandrita de gli Alocchi,
O supremo Arcifanfano de’ Cucchi,
O Busbacione, ò matto da Tarocchi.

 

E non t’accorgi homai, che tù ci hai secchi;
Vattene ad habitar tra Mamalucchi,
O farai meglio à conversar co i Becchi. 39


Traduzione

 

Murtola [Gasparo Murtola, genovese, segretario di Carlo Emanuele, duca di Savoia], tu ti scervelli e ti arrovelli / quel cervellaccio adatto a giocare a scacchi, / più adatto a fare orologi e almanacchi / e ti gonfi dalla stizza, ti dimeni e ti rannicchi in te dalla passione; / ma mentre ficchi il naso in tutti i buchi, / e stanchi tutto il mondo con i tuoi versi, / ognuno ti appende dietro strepiti assordanti / e ti manda alla forca affinché t’impicchi. / O grande capo degli stupidi, / o supremo fanfarone dei babbei, / o millantatore, o matto dei Tarocchi, / e non ti accorgi che oramai ci hai completamente seccato? / Se non vai ad abitar tra gli stupidi, / farai meglio a conversare con i cornuti”.

 

"La secchia rapita" del Tassoni

 

Il poeta e scrittore Alessandro Tassoni (1565-1635) scrisse il suo componimento più famoso La secchia rapita nel 1614. L’opera in ottave venne pubblicata a Parigi soltanto sei anni dopo. Per superare i controlli e le censure della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti, nel 1624 l’autore compose una versione particolare per il papa. La definitiva venne pubblicata a Venezia nel 1630.


Il poeta trasse ispirazione da un fatto realmente accaduto nel 1325 che infarcì con vicende fantastiche e anacronismi: i bolognesi, invaso il territorio di Modena, furono respinti e inseguiti fino a Bologna dai modenesi. Questi ultimi, fermatisi presso un pozzo per dissetarsi, portarono via come trofeo di guerra una secchia di legno. Il Tassoni immagina che, al rifiuto dei modenesi di riconsegnare la secchia, i bolognesi avessero dichiarato loro guerra. Il conflitto si concluse con l’intervento del legato pontificio che impose la seguente condizione: i bolognesi si sarebbero tenuti re Enzo come prigioniero e i modenesi la secchia. Celebri i versi del canto XII con cui il papa risponde alle richieste di denaro avanzate dai bolognesi per sopperire alle spese di guerra da sostenere contro la città nemica:

 

I Ottava

 

Le cose de la guerra andavan zoppe,
I Bolognesi richiedean danari
Al Papa, ed egli rispondeva coppe,
E ampliava gl’indulti à gli Scolari:
Ma Ezzelino i disegni gl’interroppe
Col soccorso, che diede à gli Avversari:
Allora egli lasciò di fare il sordo,
E scrisse al Nunzio, che trattasse accordo. 40


L’espressione “rispondeva coppe” è legata alla locuzione ‘rispondere picche’ e anche ‘dare il due di coppe’ che, in senso figurato, ancora ai nostri giorni significa negare o rifiutare decisamente qualcosa. I giocatori di carte sanno che il due di picche è la carta di minor valore del mazzo, ma sufficiente a volte per far perdere la partita e quindi a ‘buttar fuori’ l’avversario. Metaforicamente colui che dà il due di picche, o il due di coppe o risponde picche o coppe, lascia intendere che le sue intenzioni non sono favorevoli al richiedente. 41


Nella XIII, XIV e XV ottava del canto XII il Tassoni narra come il legato pontificio, in attesa di incontrare un nunzio che doveva fornirgli delle informative papali, si fermasse con la sua scorta nei prati di Solera per rifocillarsi. Dopo il pranzo furono predisposte carte e tavoliere cosicché i nobili e i cardinali che accompagnavano il legato si misero a giocare a tarocchi e a sbaraglino. Questo passo rappresenta uno dei momenti visti con sospetto dalla Congregazione dell'Indice dei libri proibiti: poiché il gioco dei tarocchi era considerato a quei tempi d'azzardo e proibito in particolare agli ecclesiastici, il fatto che il Tassoni avesse coinvolto nel gioco diversi cardinali, i quali avevano addirittura tirato fuori dalle tasche "una manciata di baiocchi" allo scopo evidente di pagare gli avversari in caso di perdita, non poteva essere accettato.

 

XIII

 

E ‘l Papa già co’ Genovesi havea
D’un mezzo million fatto partito,
Talché sicuramente egli potea
Ragunar soldatesca a suo appetito;
Ma il trascorrer qua, e là, ch’egli facea,
Il trasse fuor del camin dritto, e trito,
Fin che con lunga, & onorata schiera
Egli arrivò ne' prati di Solera.

 

XIV

 

Quivi stanco dal caldo, e fastidito
Fermossi à l'ombra, e d'aspettar dispose
Il Nunzio, à cui già un messo havea spedito
Per intender da lui diverse cose;
In tanto i servi suoi su’l verde lito
Vivande apparecchiar laute, e gustose,
Ed egli in fretta trattisi gli sproni
Mangiò per compagnia cento bocconi.

 

XV

Mangiato ch’hebbe stè sovra pensiero
Rompendo certi stecchi di finocchi;
Indi venner le carte, e’l tavoliero,
E trasse una manciata di bajocchi,
E Pietro Bardi, e Monsignor del Nero
Si misero à giucar seco à tarrocchi;
E ‘l conte d’Elci, e Monsignor Bandino
Giucarono in disparte à sbaraglino. 42

 

Nelle lettere del Tassoni, documentate fra il 1591 e il 1634, troviamo riferimenti ai tarocchi. Certamente aveva una notevole passione per quel gioco tanto da chiederne un paio di mazzi al canonico Annibale Sassi, eminente religioso di cui era venuto a conoscenza di un suo trasferimento a Roma dove egli si trovava al servizio del cardinale Ludovisi: "È venuto a Roma il Signor Priore Bendidio e abbiamo fatta commemorazione lunga di V.S. e la stiamo aspettando con desiderio grande e la preghiamo di portarci un paio di tarrocchi da far carnevale, o se non saranno a tempo, da giocare dopo Pasqua". 43 Una medesima richiesta di un mazzo di tarocchi viene avanzata allo stesso canonico nel 1627, due anni dopo la prima missiva:

 

"Alla fine l'oracolo d'Apollo è uscito e Nostro Signore ha dato il Vescovato al Sig.r conte Alessandro Rangoni a instaza del Sig.r Duca Conti parente suo. Però io me ne rallegro con cotesto clero, che non poteva per mio credere esser proveduto di pastore più a gusto suo; perciò che non sarà né avaro né bacchettone. Noi l'abbiamo invitato a giocare a tarrocchi, subito eh' egli sia in Roma; ma non abbiamo i tarrocchi, però se V. S. trova occasione di grazia ce ne mandi un paio. Di Roma, li 3 di Novembre 1627". 44

 

Il canonico Sassi spedì i tarocchi, ma il Tassoni si vide costretto a rifiutare la spesa di spedizione e quindi a rinunciarvi, causa l'eccessivo costo dei balzelli papali. L'amarezza per non poterli acquistare lo spinse a dire che coloro che se ne fossero appropriati non sarebbero poi stati in grado di giocare al meglio come avrebbe fatto lui e a lamentarsi che non vi fossero al momento suoi concittadini in grado di aiutarlo in quel frangente:

 

"Sono venuti i tarrocchi; ma gli hanno pesati con le lettere e tassati sei pauli; io non gli ho voluti e gli ho fatto sapere che non sono lettere. Staremo a vedere che faranno. Quando vogliano piú d’un testone, vo che se ne servano essi a iocare e mi consolo che non gli sapranno adoperare, come gli veggano; né meno ci sono qui modanesi, che gli siano per riscuotere a quel prezzo. Di Roma, li 20 dì Novembre 1627". 45


Tarocchi e commedia dell’arte


Vincenzo Belando, quasi per certo siciliano, scrisse due opere: Lettere facete e chiribizzose in lengua antiga, venitiana, et una a la gratiana, con alcuni sonetti e canzoni piasevoli venitiani e toscani e, nel fin trenta villanelle a diversi signori e donne lucchesi et altri, pubblicata a Parigi nel 1588 e la commedia Gli amorosi inganni, la cui stesura fu iniziata nel 1593 per essere terminata e pubblicata sempre a Parigi nel 1609. Il Belando fu scrittore, attore e forse anche gastronomo, attività che intraprese date le difficoltà economiche tipiche dei teatranti del tempo. Egli appartenne alla eterogenea categoria degli emigranti cortigiani che a diverse ondate esportarono cultura, servizi e mestieri dalle corti italiane a quelle francesi. Trasferitosi a Parigi, vi risedette stabilmente assumendo ruoli attoriali come buffone isolato o in parti di pedante, scritturato come esterno dalle compagnie teatrali di passaggio.


Stampata quando oramai l’attore era già vecchio, Gli amorosi inganni si configura come sua opera testamentaria. Il nome Catonzo, che nell’opera è un servo siciliano emigrato a Parigi, risulta un'evidente proiezione autobiografica dell’autore, ovviamente degradata: il nome Cataldo, che allude al mestiere di castaldo, cioè maggiordomo, con comica storpiatura diviene Catonzo. Con questa commedia, una delle tante pubblicate da attori (in questo caso da uno che non era “mai stato alla scuola, mà à mala pena à conoscere le sillabe” come scrive il Belando nel “Benigno lettore” ), l’autore intese suscitare il riso e non certamente dar prova di accademica o prosaica abilità, prerogative che non gli appartenevano: “S’havete à ridere della mia sciocchezza, non ridete à bocca sgangherata, mà come ridono le Fanciulle quando si dà lor nuova da maritarle; cioè con un riso cachino”. 46 Diversi sono i dialetti, resi al meglio comprensibili, utilizzati nella commedia da altrettanti personaggi:

 

"S’ella non parlera Fiorentino, almeno parlerà mezo Toscano, se ‘l Zanne non parlerà tutto Bergamasco parlerà mzzo Lombardo, mà più intelligibile; il Magnifico parlerà all’antica venetiana, & non come si scortica al presente à Vinegia, lo Spagnolo favellerà Castigliano più che potrà, il Siciliano ch’è la mia lingua materna, spiegherà e sua concetti più chiari, che sià possibile, ancor ch’io sia stato 44 anni fuor della patria". 47

 

La struttura della commedia evidenzia uno stadio primitivo della commedia dell’arte sia per quanto riguarda l’intreccio che il mansionario delle parti. Due le relazioni amorose con scambio di partner (Cinzia e Camilla, il Capitano e Dorotea); un Magnifico che fa coppia con Zanne; un ulteriore zanni (Catonzo) e una servetta. I luoghi evocati spaziano dalla Sicilia a Napoli, passando per Roma, Genova, Milano, Marsiglia, Avignone, Lione e San Jacopo di Galizia [il percorso compiuto dall'autore per recarsi a Parigi], mentre i luoghi di quella cultura alternativa tanto cara al Belardo sono esclusivamente parigini, come Piazza della Greva e Place Maubert, località di esecuzioni capitali e ritrovi di malfattori, oltre alle osterie del Bue Coronato e della Poma de Pin. Il tutto aromatizzato da odori di vini della Loira, del moscatello di Frontignan e di cibi abbondanti meticolosamente descritti.


L’opera appare di fattura straordinaria e in particolare il dialogo in apertura della tredicesima scena dell’atto primo, fra il Magnifico e il suo servo Zanne. Il tema discusso è l’amore, - con coinvolgimento della fortuna e della predestinazione -, in cui scritti e pensieri del Petrarca, del Burchiello, di Virgilio e di altri autori classici la fanno da padroni. Il Petrarca (ai cui Trionfi si ispirano i trionfi dei tarocchi) viene citato nel dialogo, appena prima dell’espressione “matt dei tarochi”, creando un suggestivo quanto casuale abbinamento. Di seguito il passo indicato seguito dalla traduzione:


"ZANNE: Quest’è quel, che mi ve voliva di messir, che quest’Amor v’hà fatt pusselamen, de valent v’ha fatt poltru, de scaltrit v’hà fatt un gof, de dott, v’ha fat ignorant, de savi v’hà fatt un’ Matt, e d’un Caval Despagna un destrier da muli, perche da l’hora in quà ca havì si inamorat, no fe’ olter, che scomponicchià, sonettacchià, e scantacchià per le strade, col vostro Petrarchì in ma, ca pari el Matt de i tarochi, e pez, che in casa vostra no se manghia più, la cusina e aghiazzà, la cantina hà la carnositat, tuch và sotto fora, à fares mei de tornà in vu, e andà à cercà vostra fiola, e lassa quest’Amur, che’l ve stà be, com la sella a i Asini... stè in cervel Messir". 48

 

(Questo è ciò che volevo dirvi, messere, cioè che questo amore vi ha reso pusillanime, da valente vi ha reso poltrone, da scaltro un goffo, da dotto ignorante, da savio vi ha reso un matto, e da un cavallo di Spagna un destriero per accompagnare i muli, perché dal momento in cui vi siete innamorato, non fate altro che comporre, scrivere sonetti e canticchiare per le strade, con in mano il vostro libro del Petrarca [I Trionfi d'Amore], che sembrate il matto dei tarocchi, e peggio: perché in casa vostra non si mangia più, la cucina è fredda, la cantina è vuota come una caverna, tutto va sotto sopra, fareste meglio a tornare in voi, e andare a cercare vostra figlia, e lasciar perdere quest'amore, che vi sta bene come la sella agli asini... recuperate il cervello, messere).


In questo caso l’espressione “Matt de i tarochi” si distanzia dal significato legato al gioco attribuitogli dal Cecchi nella sua commedia Il corredo (vedi sopra), venendo ad assumere un significato di carattere psicologico, riferito a un personaggio che preso da follia se ne va solitario, senza badare a quel che gli succede intorno, tanto da dover essere richiamato alla ragione con l’espressione “stè in cervel Messir”.


Adriano Banchieri

 

Adriano Banchieri, la cui vita e opere sono già state oggetto di disamina, 49 scrisse diverse commedie dell’arte fra cui L'Urslina da Crevalcor, ovvero L'amor costante, commedia (1620); La Minghina da Barbian (1621) e Il furto amoroso. Come per il Belando, egli seppe trarre da un apprezzabile impasto del toscano con alcuni differenti dialetti effetti alquanto originali, rispettando al contempo le regole del teatro cinquecentesco. Il furto amoroso, da lui firmato con il soprannome di Camillo Scaliggeri della Fratta, in cinque atti e altrettanti ‘Intrermedi’ [Intermedi], la cui “Scena fingesi Bologna, madre de gli studi”, si presenta come uno dei tipici canovacci della commedia dell’arte. Nell’ultima scena del quinto atto, la parola ‘tarocco’ è messa in bocca a Tofano, uno dei personaggi della commedia:


"Ah, ah, ah, ah, ah, e me fè ben scappolar da ridere, e si nò ghe ne hò za gnanche volontae, e voli dir che no dovemo temer, perche nù semmo armadi vù havi indosso un zacco de maia (1), e mi un bon corsaletto (2), voleuù dir cusi, mustazzo (3) de quel Tarocco che segna e si no prende". 50

 

(1) zacco de maia = maglia di ferro.
(2) corsaletto = corazza leggera che protegge il torace.
(3) mustazzo = baffo, baffone.


Traduzione


Ah, ah, ah, ah, mi fa scoppiar da ridere, e pensare che non ne ho neppure voglia; dico che non dovremmo aver paura perché siamo armati: voi avete addosso una cotta e io un buon corsaletto; tanto per dire, me la rido sotto i baffi di quel tarocco che prende e non vince".

 

Il senso è che il loro avversario, considerato un tarocco cioè un pazzo, 51 anche se era forte viene paragonato a quel giocatore che anche se qualche volta vinceva, alla fine perdeva.


Girolamo Gigli


Il Gigli (1660-1722) fu letterato e commediografo. Di questa sua seconda attività si ricorda soprattutto la commedia Il don Pilone ovvero il bacchettone falso, adattamento dal Tartufo di Moliere, in cui egli satireggia umoristicamente alcuni noti abitanti di Siena, sua città natale, utilizzando il linguaggio locale. Nel passo seguente un personaggio della commedia raccomanda al suo interlocutore di non eccedere nei confronti della sua serva dedita completamente nel servirlo con amore, per non farla sentire come il 'Matto de' Tarrocchi', cioè di nessun valore, dato che, rispondendo sempre a ogni richiesta del padrone, non meritava tale discredito.


Da Atto quinto - Scena II

 

Buoncompagno, e Geronio


Buonc. E’ Grazioso questo Giovane.
Ger. Abbiam fatto una bella coppia. E Menichina ne sarà contenta?
Buonc. Non mi sarei a ciò impegnato senza le dovute scoperte. Ma Credenza? Povara
Donna! E’ poi un poco troppo il farla divenire il Matto de’ Tarrocchi. Vedete
con quanto amore vi serve: non v’abusate della sua semplicità con tanto suo
discredito. 52

 

Non essere il "Nove de' Tarocchi"


Del gesuita e celebre trattatista del primo Seicento spagnolo Baltasar Gracián y Morales (1601-1658) venne pubblicata la sua famosa opera Oráculo manual y arte de prudencia nel 1647. Ampiamente tradotto anche in Italia a iniziare dal 1670, questo componimento conobbe una grande diffusione durante l’Illuminismo, epoca di accesi e rinnovati interessi per gli aspetti filosofici del trattato. 53


D. Vicenzo Giovanni De Lastanosa ripubblicò nel 1659 l’opera del Gracián intitolandola Oraculo manual y arte de prudencia, sacada dé los aforismos que se discurren en la obras de Lorenço Gracian. 54 Nella traduzione in italiano di quest’ultima, 55 ciascun aforisma venne connotato da uno specifico numero e da un titolo, mancanti sia nell’opera originale che nella ripresa del De Lastanosa.


Di interesse è l’aforisma 84 "Non essere il Nove del Tarocco che serve in ogni punto del giuoco", il cui titolo riprende il soggetto espresso dal Gracián nell’aforisma corrispondente “Nor ser malilla” (Non essere malilla). Il termine ‘Malilla’ viene così spiegato nel Vocabolario espanol, e italiano 56 composto da Lorenzo Franciosini: “Malilla, è il nove de’ denari al giuoco de’ tarocchi, che serve in ogn’occasion di punto in quel gioco”, riportando poi un’espressione spagnola derivante da quel termine ovvero “Servir de malilla, o como malilla” dandone di seguito spiegazione: “Vale servire, e fare ogni cosa, cioè il cameriero, lo spazzatore, il compratore, e simil’altr’uffizi, che in Roma hanno cominciato a dargli tutti a uno, e questo non è tanto male, come che è peggio chi si trova chi gl’accetta per haver quella pagnottella fresca ogni mattina, & il vino come Dio sà”. 57 Il rapporto "Malilla = Nove dei tarocchi" si deve esclusivamente all’interprete italiano che trovò la funzione di quel nove adatto a sottolineare il significato della parola spagnola.


In pratica, così come il nove di denari risulta una carta in grado di servire per ogni situazione del gioco, ‘servir da malilla’ significa per una persona diventare il punto di riferimento per tutte le necessità di un signore, servirlo a tal punto in ogni cosa da divenire indispensabile. In pratica assommare in sé ogni incombenza. Franciosini reputò atteggiamento disdicevole che certi signori dessero un incarico a una sola persona per poter avere una pagnotta fresca ogni mattina e il tipo di vino preferito. Darsi totalmente per soddisfare ogni necessità di un signore non sarebbe stato in sé disdicevole, se non si fosse giunti a diventarne il lacchè, perdendone in dignità.


Il seguente passo, tratto da un’ulteriore opera del Franciosini, si pone quale esempio di come i signori consideravano e trattavano questi servi: “Este mi criado, Senor D. Iuàn, es como malilla, que ago dello que quiero” (Questo mio servidore, Signor D. Giovanni, è com’il nove de’ Tarocchi, che ne fo quello ch’io voglio). 58 Di seguito il testo in italiano dell’Aforisma 84 "Non essere il Nove del Tarocco che serve in ogni punto del giuoco", dove l’autore mette in evidenza gli aspetti negativi dello stare in quella condizione, dando suggerimenti per non perdere dignità e decoro e per non finire disprezzato:

"Vizio è di tutto l’eccellente, che il suo molto uso venga ad esser abuso; l’istesso bramarlo tutti avidamente và à terminare nell’infastidire tutti. Grande ìnfelicità non esser buono per nulla; non minore volere esser nato, fatto per tutto. Questi tali vengono à perdere col molto guadagnare; e dopoi sono tanto abborriti, quanto per lo inanti furono desiderati. Questa proprietà del Nove de Tarrochi s’attacca ad ogni sorte di talenti, che perdendo quella prima stima di rari, acquistansi il disprezzo di dozzinali. L’unico rimedio di tutto, che vivamente spicca frà tutti, egli è conservare un tal mezzo nell’eccesso del suo splendore, che la Eccellenza consista nella finezza del talento, e la Moderazione nell’ostentazione di esso. Quanto più risplende una Torcia, tanto si consuma più, e dura meno. Scarsezze di pompose mostre si ricompensano con usure di lunga, e soda stima". 59

 

Traduzione


Pertanto, essere il nove dei tarocchi, diventa un vizio, poiché con il tempo si abusa della propria posizione. Desiderarla ardentemente infastidisce tutti. Non fare nulla di buono è una grande infelicità, ma anche nel realizzare tutto. Con il molto guadagno ricavato dal servizio si viene poi a perdere, poiché se da principio questo tipo di servitù è desiderata, col tempo si giunge a essere detestati. Questa caratteristica dei Nove di Tarocchi riguarda ogni tipo di talento, che perdendo dapprima la stima di essere raro, diventa disprezzato come comune. L'unico rimedio a questo, noto chiaramente a tutti, è di mantenere il giusto mezzo nel manifestare il proprio splendore, poiché l'eccellenza consiste nella finezza [uso sottile] del talento e nella moderazione nella sua manifestazione. Più una torcia brilla più viene consumata e meno dura. Quando i nostri spettacoli pomposi scarseggiano, vengono premiati con un lungo e fermo rispetto.

 

Tarocchi appropriati


Un vero e proprio sottogenere letterario derivò dalla pratica di mettere in rima o di versificare i trionfi dei tarocchi appropriandoli a personaggi della più diverse classi sociali, secondo una consuetudine derivante da un lato dai tournoiments de dames provenzali e dall’altro dalle rassegne delle belle donne a cui dedicarono versi il Boccaccio, il Sacchetti ma soprattutto Dante che volendo omaggiare l’amata, così scrive nella Pistola sotto forma di serventese (Vita Nuova, 16) sulle sessanta donne più belle di Firenze:


"I. Dico che in questo tempo che questa donna era schermo di tanto amore, quanto da la mia parte, sì mi venne una volontade di volere ricordare lo nome di quella gentilissima ed accompagnarlo di molti nomi di donne, e spezialmente del nome di questa gentile donna.
II. E presi li nomi di sessanta le più belle donne de la cittade ove la mia donna fue posta da l'altissimo sire, e compuosi una pistola sotto forma di serventese, la quale io non scriverò: e non n'avrei fatto menzione, se non per dire quello che, componendola, maravigliosamente addivenne, cioè che in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare, se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne".


Fra i più celebri componimenti del sec. XVI riguardanti i tarocchi appropriati, si ricordano i Motti alle signore di Pavia sotto il titolo de i tarochi: 60 i Triomphi de’ Troilo Pomeran da Cittadela composti sopra li Terrochi in Laude delle famose Gentil donne di Vinegia 61; i versi dei Trionphi de Tarocchi appropriati dedicato a donne ferraresi, 62 il Triompho delle nobile donne di Cesena fati a significatione dei tarochij, 63 La bellezza della mia Diva, posta nelli trionphi delli tarocchi 64, il Lotto Festevole, fatto in Villa, Fra una nobil schiera di Cavalieri & di Dame, con i Trionfi de’ Tarrochi, esplicati in lode delle dette Dame, & altri bei trattenimenti da spasso di Giulio Cesare Croce 65, Il Trionfo Tridentino di Leonardo Colombino (1524-1580) e I germini, sopra quaranta meritrice della città di Fiorenza, dove si conviene quattro ruffiane, le quali danno a ciascuna il trionfo, ch’e a loro conveniente dimostrando di ciascuna il suo essere (1553).


Secondo la modalità di queste composizioni, tranne La bellezza della mia Diva dove i versi di ciascun trionfo sono dedicato a un’unica dama, in i Triomphi de’ Troilo Pomeran da Cittadela ogni trionfo è associato al nome di una dama, tranne il Matto, che l'autore attribuisce a sé stesso.

 

All’autore.

 

Il Matto Matt’ e mia mente, matt’ i miei pensieri
Matt’ i miei gesti e matto è ciò ch' io faccio
e piu matto saro doman che hieri.

 

Il componimento Trionphi de Tarocchi appropriati dedicato a donne ferraresi (1520-1550) è il primo a riportare il termine appropriati con il significato di abbinati, adattati. A ciascuna dama sono riservati versi singoli. Ne riporterò alcuni:

 

Il Sole. La S. Virginia Trotta: Accieca col splendor chiunque la mira.
La Luna. La S. Violante Muzzarella: Guida il stanco nocchier a pigliar porto.
La Ruota. S. Girolama Sacrati: Chi su, chi giù, non è chi fermi il piede.
La Fortezza. S. Leonarda Riminalda: Qual duro scoglio al gran soffiar de’ venti.
Il Carro. S. Isabella Estense: Triompha sol costei per sua grandezza.
L’Imperadore. S. Battista Varrana: Nata per governar ogn’alto impero.
La Papessa. S. Hippolita Cortile: Questa del mondo ha il gran governo in mano.
Il Bagattino. S. Genevra Calcagnina: Consiste nel giocar presto con mani.

 

Soffermandoci su Il Trionfo Tridentino, occorre dire che si tratta di un poemetto di ben ottantasei ottave che il Colombino, notaio e scrittore dilettante molto in vista nella Trento di quel tempo, dedicò a Cristoforo Madruzzo, principe-vescovo di Trento e suo protettore. Il poemetto venne recitato in occasione della festa che il vescovo indisse il 3 maggio 1547 per celebrare la vittoria imperiale di Muhlberg sui protestanti. I festeggiamenti ebbero luogo presso Palazzo all'Adige (in seguito chiamato Palazzo dell'Albore), appena fuori città dove si ammirarono parate accompagnate da musiche, recitazioni e danze in cui si cimentarono le fanciulle di Rovereto, Trento e Riva del Garda, mentre le signore delle più nobili casate trentine impersonarono le figure simboliche dei tarocchi. Di seguito la stanza XXIX riferita al Diavolo interpretato dalla signora Bartolomea Podestessa:

 

Diavolo

 

Apena il Diavolo nel giardin comparse
Che già scandalizar comincian molti,
Tanta zizania dai belli occhi sparse
A chi nel mal oprar vi eran già involti.
Ma a questa Podestessa già non parse
Che in gratia alcun di lor fossero tolti
E altri che il suo consorte mai in eterno
Non speri entrar la porta del suo inferno.

 

La moda di abbinare in versi i significati dei trionfi si protrasse anche nei secoli successivi tanto che nella Bologna del Settecento questa pratica divenne consueta. Un componimento anonimo ha come oggetto di scherno i canonici della Chiesa di San Pietro, fra i quali si riconoscono nomi appartenenti al basso clero e alla buona borghesia. Intitolato Thrionfi de tarocchi e motivi latini appropriati a ciascuno dei canonici di San Pietro 66 troviamo i nomi dei trionfi in italiano e i motti in latino. Attributi satirici come “Nihil significat” (Non significa nulla), “Lingua eius gladius acutus” (La sua lingua è una spada acuta), “Fratres sobrii estate” (Fratelli siate sobri) si alternano ad altri dalla connotazione positiva come “Undique fulget” (Rifulge ovunque) e “Potens in sermone et opere” (Potente nel parlare e nell’agire).


Un ulteriore documento ottocentesco riguarda ancora la Curia bolognese, in cui sono presi di mira ventidue parroci di chiese della città verso i quali l’anonimo autore indirizza, in alcuni casi, commenti davvero salaci. Troviamo infatti in questo manoscritto dal titolo Carattere dei Parroci della Città di Bologna tolti dalle figure principali del giuoco de’ Tarrocchi, che alla carta della Luna viene abbinato un Pellegrino Taruffi della Chiesa di San Sigismondo considerato “Uomo di umore variabile e porta nello stemma di famiglia la Luna”; Gaetano Modenesi della parrocchia di San Giuseppe e Ignazio viene assegnato al Diavolo con le parole “Uomo di non aggradevole figura, di umore non tranquillo, non gradito ai Parrocchiani, sospetto di confidenza dell’Arcivescovo”; i Quattro Mori sono rappresentati da parroci di altrettante chiese con la definizione “Uomini tutti quattro riguardati presso che insufficienti e buffoni”.


Come per il documento precedente, non mancano i momenti elogiativi: il parroco di S. Isaia viene encomiato con le parole “Uomo di eccellenti costumi, dotato di vera Scienza”, mentre la carta della Temperanza è accostata a un Carlo Gnudi della parrocchia di S. Maria della Pietà con la definizione “Uomo in tutte le sue azioni di un umore riflessivo, e temperato”. Maliziosi versi sono indirizzati al primo parroco della lista, il canonico di S. Pietro Giochino Grassi, per il quale l’autore inventa il ruolo di “Capo Sinedrio Tarrocchinesco”, descritto come “Uomo null’atto che appunto a preparare una Tavola da Giuoco”. Al termine si trova un appunto in cui l’autore fa rilevare che le sue “piacevoli indicazioni” riguardanti i parroci sono state dettate “con religiosa disapprovazione” e da lui ben applicate.


Rivolti a dame e di autore anonimo sono i versi che portano il titolo I Trionfi de tarocchini apropriati ciascheduno ad una dama bolognese con la spiegazione in fine per capire meglio li sudeti trionfi ossia satira da N.N. 67 Il componimento che data a un periodo senz’altro anteriore al 1725 in quanto presenta ancora le figure dei quattro Papi, è diviso in due parti distinte: la prima elenca le corrispondenze fra i trionfi e le singole dame; nella seconda, accanto ai nomi delle dame, vengono fornite informazioni sui nomi dei relativi padri, mariti, suoceri e titoli nobiliari con una giustificazione dell’attribuzione offerta a ciascuna dama come descritta nella prima parte. Fra le diverse assegnazioni alcune risultano alquanto brutali, come ad esempio quella del Diavolo, abbinata alla contessa Baldi “Perché di spaventevole difformità e bruttezza”

 

Un gioco di società con i tarocchi

 

Girolamo Bargagli, vissuto tra il 1537 e il 1586, letterato e giureconsulto senese, fu membro dell'Accademia degli Intronati (con l'appellativo di Materiale) che nella seconda metà del Cinquecento rappresentò il più significativo centro di produzione di commedie regolari. Il componimento più famoso del Bargagli fu, senza dubbio, La pellegrina che scrisse nel 1564 su incarico del Piccolomini. A quest'ultimo si era rivolto per tale commissione il cardinale Ferdinando de' Medici (poi, dal 1587, granduca di Toscana), ma il Piccolomini, preso da diversi interessi e doveri, aveva passato l'incarico al giovane collega, che si fece aiutare da un altro accademico, Fausto Sozzini detto il Frastagliato. Quest'ultimo infarcì il testo con numerosi accenni polemici riguardanti la corruzione del clero, ragione per la quale l’opera venne rappresentata e stampata solo nel 1589, dopo la morte del Bargagli. Su iniziativa del fratello Scipione venne recitata, seppur censurata in alcune sue parti, dagli Intronati a Firenze per le nozze del granduca Ferdinando I che, dopo aver deposto la porpora cardinalizia nel 1588, sposò l’anno successivo Cristina di Lorena, nipote di Caterina de’ Medici, regina di Francia. Conoscono assai bene quest'opera gli storici della musica in quanto in occasione della sua rappresentazione il conte Giovanni Bardi ideò sei intermedi, i cui versi che si devono a poeti del calibro di Ottavio Rinuccini, Giovanni de' Bardi, Giambattista Strozzi, Laura Lucchesini, vennero posti in note dai maggiori musicisti del momento, vale a dire Emilio de' Cavalieri, Cristofano Malvezzi, Luca Marenzio e Giulio Caccini. Fu uno spettacolo memorabile e non poteva essere diversamente dato i nomi dei partecipanti e i costumi e le scenografie curate dal Buontalenti.


In riferimento ai tarocchi, risulta di interesse l’opera del Bargagli Dialogo de' giuochi che nelle vegghie sane¬si si usano di fare (Siena, 1572), un vero e proprio trattato sui giochi del tempo, il cui perfezionamento viene attribuito dall’autore agli Accademici Intronati. L'opera è composta da una serie di sentenze o di giudizi nati da un dialogo al quale prendono parte, appunto, gli Intronati. Il Bargagli, che da membro di quell’Accademia si firmava con il nome di Materiale, descrive in questo dialogo più di cento giochi di società praticati dall’accademia senese, dividendoli in due distinte categorie: i giochi ‘piacevoli’ e gli ‘ingegnosi’ (o ‘gravi’). Se i primi sono meri passatempi di compagnia, gli altri servivano a dare sfoggio d’ingegnosità, d’invenzione e d’artificio. Ogni gioco è articolato in tre parti: la ‘proposta’, fatta dal ‘principe’ degli accademici o dall’inventore del gioco; l’esecuzione del gioco; l’‘applauso’ ai vincitori e le ‘penitenze’ inflitte ai perdenti. Una tale distribuzione non può che far ricordare le celebri Veglie di Siena (1604) del canonico bolognese Orazio Vecchi che divise le Veglie in due parti, la prima faceta e la seconda grave. Esattamente come nella prima parte del Dialogo è articolato ogni numero della prima veglia del Vecchi dove i sei convenuti, tre accademici e tre dame ospiti, giocano insieme al ‘giuoco delle imitazioni’, una serie di ameni ritratti musicali su sei soggetti imposti dal principe dell’Accademia: un siciliano affetto dalla passione amorosa, una villanella vezzosa e bella, un soldato tedesco avvinazzato, un francese zerbino e galante, un veneziano sentenzioso insenilito, un gruppo di ebrei italiani derubati del loro grasso pollame. Ciascuna imitazione è introdotta da una ‘proposta’ collettiva e conclusa da un ‘applauso’ di tutti i vegliatori. Nel Dialogo del Bargagli - che assieme alle Veglie del Vecchi rappresentano veicoli preziosi per accostarci al territorio esotico della vita accademica italiana di fine Cinquecento - riguardo i tarocchi (Giudizio 57) si legge:

 

"Et io ancora (soggiunse il Mansueto) ho veduto fare il giuoco de’ Tarocchi, ponendo a tutti li circostanti un nome di tarocco, et qualcun di poi dichiarar chiamando, per quale cagione stimasse, che à questo et à quello il nome d’un tal tarocco fosse stato posto". 68

 

Risulta evidente come il gioco dei tarocchi così come qui descritto, debba essere messo in relazione con le pasquinate, con i sonetti e i motti basati sull’associazione di un trionfo con una persona nota.

 

Strambotti de triumphi

 

Una anonima canzone che risulta rilevante per quanto riguarda l’ordine dei trionfi nel sec. XVI 69 si trova in una raccolta di testi dal titolo Strambotti d’ogni sorte & sonetti alla bergamasca gentilissimi da cantare insu liuti & variati stormenti. 70 Lo strambotto, usualmente composto da una singola stanza di otto endecasillabi, veniva cantato, come si deduce anche dal titolo sopra riportato, con accompagnamento di strumenti. Mario Menghini in una sua edizione su Serafino de’ Ciminelli, 71 chiamato Serafino l’Aquilano, riporta diversi componimenti tratti da questa raccolta, fra cui lo Strambotti de triumphi, che appare con minime varianti rispetto all’originale di seguito riportato:

 

Miracomãdo aquel angelo pio,
al mõdo al sole alla luna & lostello
alla saetta & a quel diavol rio
la morte el traditore el vecchierello
la rota el caro & giustizia di dio
forteza & temperanza & amor bello
al Papa Imperatore & Imperatrice
al bagatello al matto più felice.

 

Alcuni componimenti sui germini o minchiate


Il primo documento conosciuto in cui appare il termine germini (minchiate) è il Capitolo in lode della zanzara, composto da Agnolo Allori detto il Bronzino (1503-1572), discepolo in pittura del Pontormo, ma anche dilettante di poesia bernesca (intorno al 1530-40). Alcuni versi del Capitolo, dedicato a Benedetto Varchi in seguito alla richiesta da lui rivolta ad artisti toscani fra cui il Pontormo di pronunciarsi se fosse maggiore la pittura o la scultura, sono incentrati sui trionfi toscani:

 

Capitolo a messer Benedetto Varchi, in lode de la zanzara

 

Ponete mente il giorno delle feste,
Dove si giuoca à Germini, et allora
Vi fian le mie parole manifeste;
L’Imperadore, e ‘l Papa che s’adora
Vi son per nulla, et le virtù per poco
Fede, et Speranza, et ogn’altra lor suora;
Il Zodiaco, e ‘l mondo, e ’l Sole, e ‘l fuoco,
L’aria, et la terra ogni cosa si piglia
Con quelle trombe alla fine del giuoco;
La gente s'argomenta, et assottiglia
Fino à un certo che, poi s'abbandona
Li studij, et ogni cosa si scompiglia;
Chi trovò questo giuoco fù persona,
Che dimostrò d'haver cervello in testa,
Et tanto manco poi se gli perdona,
Che gl’haveva a cercar, veggendo questa
Tromba tanto valer, di quella cosa,
Che fù cagion d'un suon di tanta festa,
La qual trovata haver la generosa
Zanzara, in una carta ornata, et bella
Dipinta, come quando, o vola, o posa,
Et far che fusse ogni trionfo à quella
Soggetto, et cosi il giuoco andava in modo,
Ch’ il ver saria rimasto in su la sella.
S'io stessi sano, et ch' io havessi il modo,
Tanto ch' io fussi un tratto Imperadore,
Io farei pur un' insegna à mio modo.
Io non ne vorre andar preso al romore,
Et lascerei quell'aquila à Troiani,
Che mandò quel fanciullo (1) al Creatore;
La me dovette far parecchi brani
Del poverino, et dicon che fù Giove
Che 'l portò in Cielo, io 'l crederei domani.
Et senza andarmi avviluppando altrove,
Torrei questa, ch'io canto, per bandiera,
Et udite à ciò far quel che mi muove.
La fama hà quelle trombe, et vola altera
Come costei, ond' io l'hò per figliuola
D'una Zanzara, ell' hà quella maniera.
Et se la fama tanto vale, et vola,
Quanto varrè la madre, et volerebbe
Per la reputation, non ch'altro, sola?
Credo che solo al nome tremerebbe
Quanto la terra imbratta, et l'acqua lava,
Et che co ‘l tempo ognun meco starebbe. 72

 

(1) Quel fanciullo = Ganimede.

 

Un ulteriore documento sempre riguardanti i germini è costituito dalla novella di Agnolo Fiorenzuola Sopra un caso accaduto in Prato (c. 1541), dove troviamo indicazioni sul gioco attraverso modi di dire dei giocatori: «se fa a germini e dica al compagno: Dà uno di quei piccioli” e “il compagno die ‘l trenta dua, e’ dice “Bene”; se dice: ‘Da un dell’aria’, e colui die una salamandra, ‘e dice: “Buono, buono, compare”». Inoltre, ricordiamo La cortigiana di Pietro Aretino (Seconda versione, 1534) dove all' atto V della scena 11, Rosso, uno dei protagonisti, dice: “poco starete a far gemini dei tarocchi con Livia”.


Appartiene invece alla tipologia di componimenti dei tarocchi appropriati il Capitulo de’ trionfi del passo col Matto e l’Amore facti in Prato l’anno MDXXXIIII di Niccolò Martelli 73 dove ciascun trionfo è abbinato a una gentildonna di Prato. A questo Capitolo fanno seguito le Stanze facte a l’improviso lungo el Bisentio sopra una parte de l’insegne de’ trionfi, composte dall’autore sempre nel medesimo anno.


Il Martelli, valutato come scadente letterato dai critici degli ultimi due nostri secoli, fu ai suoi tempi variamente giudicato. Così scrive di lui Armando Sapori trattando della storia commerciale del Rinascimento: «Niccolò Martelli, uomo del secolo XVI, che lasciò egli pure gli affari, nel partire da Firenze disse di “volersi ricreare con i versi [ne scrisse tanti, e brutti, dedicati ai signori che lo ospitavano] dalle beghe della vile mercatura"». Apostolo Zeno nelle annotazioni all'opera Biblioteca dell'eloquenza italiana di monsignore Giusto Fontanini, arcivescovo d’Ancira (Parma, 1803) scrive che "Il Martelli da giovanetto andò a Roma, in tempo che vi era Pietro Aretino d'anni XXVIII, il quale postogli affetto, compose in sua lode un capitolo e insieme lo confortò a entrare nel dilettevole campo della poesia toscana, in cui poscia riuscì più che mezzanamente felice". Al contrario, nel tomo IV delle Opere di monsignor Giovanni della Casa, curato da Battista Casotti (Napoli, 1733), troviamo che per testimonianza degli eruditi compilatori dell'Accademia fiorentina delle Notizie Storiche, il Martelli era uomo "di mirabìl facondia, e dì grande, e soave ingegno”.


Ritornando al Capitulo de’ trionfi del passo, occorre precisare che l'espressione "del passo" stava a indicare quelle carte oggi comunemente conosciute come trionfi, cioè le carte più rilevanti dal punto di vista simbolico e allegorico.

 

Inizio del poema:

 

Senza giudicar, Donne, a passïone
di voi s’è facto i Trionfi del passo,
però stia ognuna u’ ‘l iuditio la pone.
E udirete, mentr’andiamo a spasso,
e mentre l’un ragiona, e l’altro canta
chi l’ha di voi più alto e chi più basso.
Quella di Marïan ch’ha in sé tanta
bellezza che potria far arder Giove,
la Tromba fia, de’ Germini el quaranta.


Il Capitolo termina con questi versi:


Ècci due altre cose che vanno
L’un senza l’altro, chè ‘l matto e l’Amore,
però fra queste ancor si noteranno.
[...]
Or se tu domandassi me, lectore,
quel che d’esti trionfi pare a me,
risponderei, per far al vero onore,
che sare’ chi avessi el quaranta per sé.


Il Martelli riportò in una sua lettera indirizzata a una certa mad. M. Dem il ricordo di come e quando avvenne l'occasione della stesura del Capitolo de' trionfi, così come troviamo nel Il primo libro delle lettere, di cui si propone il relativo passo:

 

"Et passato detto piacevol carnovale, soggiunse la quaresima, i quali giorni si spendevon quietamente et alle prediche et alle perdonanze, et alle laude, secondo il consueto della christiana religione, delle piu belle et honeste della Terra, sempre accompagnata, di poi passata anchora la resurretion del Signore, et cominciandosi aprir la stagione, la quale richiedea i diporti, et i solazzi fuor della Terra per la felice et gratiosa primavera, che incominciava, ne parve d'uscire con qualche cosa di nuovo, per variar i piaceri cominciandosi delle piu belle, et gratiose della Terra in terza rima, à fare i trionfi del passo, per potere distinguere et consegnare le lodi di ciascuna secondo meritava, et si fecion tanto à proposito et giusti senza partialità che ciascheduna par che del suo luogo rimanesse contenta, e quali trionfi alla presenza della maggior parte al convito dello honorevole M. Giovanbattista Spighi cantati et recitati in su la lira furono del medesimo Auttore: ne bastò solamente questo, che si seguitò di fare anchora alcune stanze sopra à una parte di essi trionfi, almeno di quelle, che alla presenza et in compagnia della Signora Contessa de Bardi, sempre si trovavano, qual stanze si cantorono et publicorono, ma non dettano, perche voi non volete, in altro splendidissimo convito à santa Anna, al non men bello che commodo luogo, del cortesissimo et genial Lorenzo Segni, dove al si concorse tanti varij et dilettevoli piaceri di moresche, et balli rustici di più di dieci miglia lontano, che fu una cosa infinita, che concorse non solamente tutto Prato, ma della città nostra di Fiorenza anchora, così finito quel giorno dilettevole, & lungo naturalmente, ma breve per li spessi, et varij piaceri che quivi s 'adunorono non molti giorni dopo si ascese al dilettevol Poggio delle sacca; dove essendosi per piu d'una volta, per voi sentiti i trionfi et stanze sopra essi composte dopo il danzare, et honestissimamente festeggiare à l'ombra di cipressi, et di mirti vicini à un bel fonte, non mancò chi di voi all’improviso cantasse alcune stanze, non solamente sopra le doti datevi sopra i cieli, ma anchora sopra gli habiti leggiadri, et bei colori, che difusamente ciascheduna portava". 74

 

Sulla natura del volgare toscano

 

Benedetto Varchi (1503-1565) nacque a Montevarchi, in Toscana. Assecondata dal padre la sua predisposizione per gli studi, si laureò in giurisprudenza divenendo notaio. In seguito, fece parte dell'Accademia Fiorentina occupandosi di linguistica, critica letteraria, estetica e filosofia, ma anche di alchimia e botanica. Scrisse il trattato L'Hercolano (pubblicato postumo nel 1570), la commedia La suocera e moltissimi sonetti. La sua attività letteraria, molto apprezzata dai contemporanei, gli valse la nomea di filosofo che lo rese ben presto famoso, anche se in realtà fu soltanto un divulgatore di idee filosofiche. La sua opera più famosa rimane comunque L’Hercolano, dialogo tra l’autore e il conte Ercolano sulla natura del volgare toscano (L’Hercolano, dialogo di messer Benedetto Varchi nel quale si ragiona delle lingue, et in particolare della toscana, e della fiorentina). Il successo fu immediato grazie soprattutto al fatto che fu il primo libro di linguistica a non essere scritto in latino. Discutendo se la lingua greca fosse più o meno ricca del nostro volgare, il Varchi descrisse centinaia di espressioni fiorentine tutte relative al parlare corrente senza corrispondenze nella lingua greca. Una di queste riguarda il gioco delle minchiate:

 

"Dare il suo maggiore, tolto dal giuoco de’ germini, ovvero, de’ tarocchi, nel quale sono i trionfi segnati col numero, è dire quanto alcuno poteva, e sapeva, dire il più, in favore, o disfavore di chichessia; e perchè le trombe sono il maggiore de' trionfi del passo, dar le trombe vuol dire fare l'ultimo sforzo". 75

 

Tre letterati del Settecento

 

Il gesuita Giambattista Roberti (Bassano del Grappa, 1719-1786) si occupò di lettere, di teatro e di scienze. Un personaggio poliedrico in tutti i sensi. A Parma, presso il Collegio dei Nobili insegnò retorica e ricoprì la carica di accademico trovandosi per questo preposto all’organizzazione delle rappresentazioni teatrali che costituivano un momento importante nel metodo educativo dei collegi gesuiti. Questa esperienza influenzò il gusto e la sensibilità artistica del Roberti che si interessò molto da vicino alle esperienze teatrali italiane ed europee di quegli anni, mostrando particolare predilezione per le opere del Goldoni. A Bologna, mentre insegnava filosofia, manifestò una profonda attenzione per le scienze, cosa che lo portò a stringere amicizie con famosi personaggi del tempo come Francesco Algarotti. Dopo la soppressione della Compagnia, il Roberti si trovò in prossimità del pensiero illuminista. Fra i suoi numerosi componimenti troviamo un poemetto dal titolo Le perle pubblicato a Bergamo nel 1771. L’opera, di carattere didascalico, è dedicata alla pesca delle perle e al loro utilizzo, con cenni sulle gemme e sui metalli preziosi. Nelle note egli accenna anche alla fabbricazione delle perle artificiali, nonché ai sistemi di pesca subacquea. Il componimento venne dedicato al patrizio genovese conte Gian-Luca Pallavicini ed è nella dedica che troviamo un riferimento ai tarocchi bolognesi e alle minchiate, laddove l’autore, passando in rassegna i diversi divertimenti che attraevano l’amico conte, si augura che anche il suo libro potesse risultare fra questi:


Dunque, Signor, li prendi, e ad essi dona
Il tranquillo silenzio d' una sera,
Solinga sera ed a Minerva sacra:
Chè finalmente è tuo bello costume,
Mentre ad altri il sottil ombre accigliato,
Che è del pensoso guerreggiare Ispano
Giocosa immago, e le Tosche minchiate,
Ed il felsineo vario tarocchino
Suscitatore di piacevol ira,
E il teatrale riso e il lieto ballo
Le notti usurpa, bel costume è farti
Tua notturna delizia un dotto libro:
Un di que' libri che tu alberghi a folte
Ornate schiere, e quelli che la pura
Religion letteraria de’ Giunti,
De gli Stefani esatti e de' Manuzj
Ne le purgate edizïon veraci
Li volea a i miglior dì da colpe immuni. 76

 

Interessante come il Roberti descrisse il tarocchino: l’espressione “Suscitatore di piacevol ira” denota un atteggiamento aperto, benevolo seppur l’autore fosse uomo di chiesa e per di più un gesuita. Da uomo di mondo, appare evidente che il Roberti aveva compreso che non vi poteva essere divertimento laddove le passioni dovevano essere controllate o addirittura represse.


Niccolò Forteguerri (1674 -1735), nacque a Pistoia e trascorse la maggior parte della sua vita a Roma come ufficiale della curia. Pubblicò antologie nello stile dell'Arcadia, oltre a favole e satire, ma è soprattutto ricordato per il Ricciardetto, scritto fra il 1716 e il 1725, composto di trenta canti in ottave, pubblicato postumo col nome dell'autore grecizzato in Niccolò Carteromaco.

 

Il Ricciardetto è un frutto tardivo della dissoluzione del poema e delle idealità cavalleresche, nel solco della tradizione creata dal Morgante del Pulci e dal Baldo folenghiano. Esso non è propriamente né una satira, né una parodia, poiché la materia cavalleresca costituisce il semplice spunto, il punto d'appoggio per il libero e gioioso e sapido fantasticare di cui si compiace l'autore, e ch'è il pregio principale del poema. 77

 

Nell’ottava 46 del canto XII troviamo riferimenti ai tarocchi e ad altri giochi di carte. L’Argomento del canto viene così descritto dall’autore:

 

Le dame e i cavalier menando vanno
Con le villane in balli il giorno lieto.
Rinaldo, Astolfo togliendo d'affanno,
Scopre alla vecchia ria tutto il decreto.
I due cugini a contrastar si danno
Contro i folletti, e cascano ad un peto,
Il quale fu sì puzzolente e strano,
Che Iddio ne scampi ogni fedel Cristiano. 78

 

Ottava 46

 

Gli uomini stanno in casa, e se talora
Per alcuna bisogna son forzati
Ad uscir, vanno con la fante fuora;
E quando in casa si son ritirati,
Ora da questa, or da quella signora
Cortesemente sono visitati,
E trattenuti a l'ombre, a' tarocchini,
A primiera, a tresette, a' trionfini. 79

 

Giovan Santi Saccenti (1687-1749) nacque a Cerreto Guidi. Avviatosi dapprima agli studi di giurisprudenza, li abbandonò per dedicarsi alla poesia. La maggior parte dei suoi lavori confluì postuma nel volume Le rime di Giovan Santi Saccenti da Cerreto Guidi, accademico sepolto. Così scrive di lui l’editore della ristampa successiva di quest’opera nel 1808:

 

"Di aspetto severo anzi che nò riusciva molte volte piacevole, e vivace nella compagnia degli amici, coi quali era liberale dei suoi versi universalmente applauditi per quella schietta naturalezza, e spontaneità di vena, che gli distingue. Fu, con raro esempio, modesto estimatore delle cose sue, e non pensò giammai di renderle pubbliche colle stampe; ma restatene le copie presso i suoi familiari, furono queste raccolte, e pubblicate per la prima volta nel 1761 in data di Roveredo, e più correttamente nell'anno 1789. in Cerreto". 80

 

In un sonetto l’autore ammette la sua ignoranza nei riguardi del gioco delle carte e dei tarocchi:


Sonetto

 

Quadriglio non l'intendo, e alle minchiate
Stento a saper se il Diavolo è tarocco,
Vengo a veglia, e sto qui come un pitocco
A trincar del Caffè, quanto ne date.

 

Al più faro due rime sconcertate,
O un Sonetto dirò guasto, e ritocco,
Saprò forse cavar da un tema sciocco
Qualche nojosa diceria da Frate.

 

E in grazia di tant' opra io vidi jersera
Comparire una Lepre a casa mia,
E gli manca dar fine alla carriera.

 

Ben venuta, diss'io, vosignoria,
Chi vi manda? rispose in sua maniera:
Chi ha della roba da gettarne via:

 

Oh somma cortesia!
Se ognun l'ammira, e con stupor ne parla,
Io che farò? confondersi? Mangiarla. 81

 

Giuseppe Vollo


Giuseppe Vollo (1820-1909) fu romanziere e drammaturgo, ultimo direttore del giornale veneziano Il gondoliere. Per aver preso parte ai moti del 1848 fu costretto a emigrare in Piemonte. Compose drammi storici (I due Foscari; Maometto II; ecc.) e commedie intrise di carattere sociale: La birraia (1852); I giornali (1855); L'ingegno venduto (1858); ecc. Tra i suoi romanzi più rinomati si ricordano Il gobbo di Rialto, Papa liberale (1868) e in particolare Gli ospiti (1865) sugli esuli in Piemonte. Nel dramma Tutto è un sogno, troviamo di nuovo l’espressione ‘Pazzo de’ tarocchi’ dal significato di persona rimasta senza alcunché.


Da Atto terzo - Scena II

 

Loretta, Crocifissa


Lor. Scaccomatto!...
Croc. Capotto!...
Lor. Egli rimane
Siccome il Pazzo de' tarocchi…
Croc. O come
Un'altra carta più fatal. (avviandosi)
Lor. La Morte! 82

 

Bologna e i tarocchini

 

Oltre ai documenti bolognesi descritti nel paragrafo ‘Tarocchi appropriati’ diversi altri testi furono composti prendendo spunto dai tarocchini. Uno di questi porta l’altisonante titolo di La granda de tarochini che invita le sfere celesti aeree ferree, e sotteranee, al trionfante applauso universale del sig. Andrea Casale. 83 Si tratta di un componimento anonimo in versi sciolti facenti parte di una raccolta miscellanea manoscritta contenente documentazione del sec. XVIII, ma riferita anche a eventi del secolo precedente. La data più recente risale al 1709 con un proclama di Federico IV di Danimarca. Con il termine Granda viene chiamata una combinazione realizzata coi trionfi nel gioco del tarocchino. Andrea Casale (o Casali), nobile bolognese, nacque a Bologna nel 1582 dal senatore Mario Casali e dalla signora Barbara Malvezzi. Militò nell'esercito di sua maestà cattolica combattendo all'assedio di Ostenda. Una storia incerta racconta che, ferito e creduto morto, venne fatto schiavo dai turchi e condotto a Tunisi. Dopo 25 anni, fu riscattato dai padri dell’Opera del riscatto e una volta libero andò a Roma dove la sua identità di nobile bolognese venne comunque contestata essendo creduto un impostore che volesse ottenere l’eredità di famiglia. Dopo alterni processi e vicende in cui la sua vera identità non venne tuttavia confermata, fu esiliato a Civitavecchia dove morì, poverissimo, nel 1639.


Credendo inizialmente al ritorno del vero Andrea Casale, l’autore versificò questa vicenda abbinando i nomi dei tarocchini alle diverse situazioni, come troviamo ad esempio nei seguenti versi relativi al suo ferimento: “Vien fulminato da nemica mano / Con una traditrice archibugiata / Che nel sinistro braccio lo Saetta” e in quelli riguardanti il suo ritorno a Roma: “E a viva Forza delli suoi Contrarij / Per Giusta causa, e buon Temperamento / quasi in pomposo Carro trionfale / Lo riconduce nell’amata patria”. Conclude il componimento un ‘Applauso’ cioè una rima in lode dell’eroe, dove tutti i trionfi sono invitati affinché “Cantino con applauso universale e viva, vivo in Vita, Andrea Casale”.

 

L'Angelo con la Tromba risonante
Alli Rostri del Ciel chiama, e proclama
Col triplicato arringo a tutto il Mondo
Andrea Casale nobil Bolognese
Vive, et è vero, e non è putativo
A così gran Proclama ero assistente
Li Due Gran Luminari delle Sfere
Del destro corno l'indorato Sole
Ed al sinistro l'argentata Luna;
Non si tarochi più; ma ben trionfi
Si smenchino à favor del trionfante
La Stella in lui regnante al suo natale
Volendoli ricovrar sotto quel Tetto
Ov' egli nacque in bambolesca etade
Fà si che ritrovandosi all'assedio
Sotto il Forte d'Ostenda nella Fiandra
Vien fulminato da nemica mano
Con una traditrice archibugiata
Che nel sinistro braccio lo Saetta
Come restasse derelitto, e smorto.
Creduto morto dalli suoi compagni
Chi lo raccolse, e chi lo medicasse
egli lo dica poicche non è morto
Il Diavolo cacciandoli la coda
Per far credule altrui della sua Morte
Tenta con artificio il Traditore
Far attestar le pie cerimonie
Che s'usano all'esequie de Mortali
Ei doppo un sesto lustro in man de' Turchi
Dalla congregazione del Riscatto
Vien riscattato, et è condotto à Roma
Per far vista pomposa al Campidoglio
Schierato in moltitudine de schiavi.
Col suo nome, cognome, grado, e patria
Benche dai gran disaggi, e patimenti
Incanutito, che rassembra il Vecchio
La sua fortuna ormai compassionata
Lo fà salire in alto sù la Rota
E a viva Forza delli suoi Contrarij
Per Giusta causa, e buon Temperamento
Quasi in pomposo Carro trionfale
Lo riconduce nell'amata patria
Veduto da più cari amati Amici,
E dal maggior concorso popolare.
Con lieta fronte, e con verace Amore
Li Pontefici, e Giudici informati
Da mille da mille testimonj, segni e prove
L’han dichiarato per Andrea Casale
Personale effettivo, e verdadiero
Non stimando li frivoli argomenti
Della parte avversaria un Bagattino
Qui concludiamo una real Sentenza
È legge mirabile de Tarocchi
Nulla prender chi cerca far il Matto.

 

Applauso

 

L'Angelo, il Mondo, Sole, Luna e Stella,
Saetta, Diavol, Morte e Traditore,
Il Vecchio, Rota, Forza, Giusta e Tempra
Carro, Amor, quattro Papi col Bagatto
Unitamente in Roma con il Matto
Cantino con applauso universale
E viva, vivo in Vita, Andrea Casale.

 

Una poesia, composta sull’amore utilizzando i nomi dei trionfi, si trova in una miscellanea di scritti in prosa e in versi databili dal XVII al XIX secolo che trattano argomenti religiosi, politici e satirici riguardanti in gran parte i sommi pontefici. 84 La composizione, dal titolo Con li trionfi e con le figure del gioco tarocchino in quest’ordine disposti, si descrive poeticamente la forza d’amore, presenta l’Amore che alla guida del suo carro colpisce con saette, senza alcuna distinzione, il cuore degli uomini affermando la pazzia di coloro che pensano di resistergli, dato che l’amore governa su tutto ciò che il sole e la luna illuminano, le cose chiare e non chiare, concludendo con l’affermazione che non esiste al mondo un potere più grande del suo.

 

Da veloci Destrieri Amor guidato
Sul suo Carro si Ruota, e ognor tradisce
Tempra Saette, ed ogni cuor ferisce
Morte il precede, e l’segue il Tempo alato.
Uomini e Donne, e a Giovinetti a lato
Il merto si bilancia, e i vecchi unisce
Alle Fanciulle, e infin ferire ardisce
Chi sul Trono commanda Coronato.
Pazzo è quei, che resistere si crede
Della Stella d’Amor al rio tenore
Tutto ama ciò che il Sol la Luna vede.
Dagli Indi a Mori è onnipossente Amore
Il Cielo a lui, a lui l’Inferno cede
Nel Mondo, si può dar forza maggiore?

 

Volendo documentare per ultimo anche un momento della letteratura dialettale, seppur appaia di difficile comprensione si riporta un sonetto la cui lingua gergale appare molto diversa da quella odierna. Il documento è compreso in un fascicolo di miscellanea con molti altri sonetti in dialetto bolognese. 85 La data della sua composizione dovrebbe risalire fra il 1757 e il 1763, epoca in cui ebbe luogo la guerra dei sette anni. Diversi componimenti che fanno parte della miscellanea sono infatti datati all’incirca a quel periodo: il primo tratta la presa di Praga, il secondo è una risposta al maresciallo Schewerin, mentre altri hanno come argomento il re di Prussia. Questi riferimenti sono verosimilmente inerenti alla guerra citata, nella quale ebbero un ruolo preponderante la Prussia e il suo re Federico II il Grande. Di seguito il sonetto originale seguito da sua traduzione:

 

Per far una Partida a Taruchein
I Tudesch, i francis e i moscheuuesta
contra al Re d’Prussia in messen un di a Taulen
con al pinsir d’cavari un’acqua veta.

 

Lu, ch stem i Zugadur poch manch dun sin
al stos par lu far el cart lo so man dritta
e scartand à quel Rè, ch’ièra più usin
al fè un’arfidadura ch’en stà scritta.

 

Il ha la prosunzion d’andar inanz
e d’psrer apportar un marz a tutt al mond
a forza d’sti prussian belli elleganz.

 

Mo cazan a sminchionarn da cap a fond
Sgnaur aleà en àbbadà al sou zuaz
quotevi in tutt egl occh, e lassai però al Tond.

 

Per fare una partita a tarocchino
I tedeschi, i francesi e i russi
Contro il re di Prussia si misero un giorno a tavolino
Con l’idea di vincergli un’acquavite.

 

Lui che stima i giocatori poco meno che niente
Sta far fare le carte alla sua destra
E scartando a quel re che era più vicino
Fece un rifiuto che non esiste.

 

Egli ha la presunzione d’andare avanti
E di potere dare marcio (1) a tutto il mondo
A forza di questi prussiani belli ed eleganti

 

Ma cominciano a sminchiare (2) da capo a fondo
Signori alleati non guardate al suo brutto gioco
Portategli via tutti gli occhi, lasciate però il piatto con la posta (3).

 

(1) dare marcio = Nel gioco dei tarocchini bolognesi, ‘marcio’ equivale a ‘cappotto’, cioè quando gli avversari non realizzano alcuna presa. Il termine è oggi utilizzato ancora dai giocatori anziani.
(2) sminchiare = Giocare il trionfo più grande e proseguire con gli altri (dal gioco fiorentino delle Minchiate). Questo termine è rimasto anche oggi nel dialetto bolognese a indicare un'azione ripetuta e molto decisa.
(3) Il piatto che conteneva la posta si chiamava Tondo o Tondino.

 

Il ribelle Tekeli

 

La liberazione dell'Ungheria dai musulmani assunse in Europa i caratteri di una vera e propria crociata contro gli infedeli. Il nobile ungherese Imre Thökoly (1657-1705) che aveva combattuto a fianco dell’impero ottomano, rinnegando la sua terra e la sua religione, divenne l'emblema del tradimento. Significativo al riguardo è il sonetto di condanna a lui rivolto imperniato sui trionfi bolognesi riportati in ordine discendente, Il giuoco de tarocchini sopra Michele Tekely ribello dove il traditore Tekely (trascrizione impropria del cognome) viene definito "Angelo infernale" per aver spinto la Turchia in guerra contro l'Austria. Dal finale del sonetto comprendiamo che il componimento fu scritto quando Thökoly era ancora vivente, dopo le sue grandi sconfitte, quindi con molta probabilità verso l'ultimo decennio del sec. XVII.

 

Angel d'Inferno sei Michel, ch’ al Mondo
Tentasti d'Austria il Sol rendere nero,
Tu la Luna Ottomana, Astro ch’ è immondo,
Suscitasti fellon contro l'Impero.

 

Stella d’orror della Saetta il pondo,
Qual Demonio infernal, scoccasti fiero,
Con influsso di Morte il brando à tondo,
Girasti Traditor, Orazioo severo;

 

La Ruota alla Fortuna arpia superba
Con la Forza inchiodar speravi affatto,
Di tè Giusta vendetta il Dio ti serba;

 

Tempra l’ardir trattieni il Carro, e ratto
Lascia d’Amor d’Imper la voglia acerba,
Ne il Papa tiene per Bagattin, ò Matto.

 

Una politica rovinosa


Nell’Almanacco della commedia umana per il 1886 edito da Sonzogno apparve una satira sulla vita economica, sociale e politica dell’Italia attuata con i trionfi dei tarocchi. Il componimento che reca il titolo Il nuovo giuoco dei tarocchi venne composto abbinando due quartine a ciascun trionfo, le cui figure furono liberamente rimodellate per l’occasione e incorniciate da schizzi di carattere allegorico. Il Bagatello venne associato ad Agostino Depretis, primo ministro del tempo; i versi che accompagnano la carta del Papa (Leone XIII) appaiono come una pesante accusa di stampo radicale alla ricchezza del Vaticano; la carta dell’Imperatore critica il ministro degli esteri Pasquale Mancini, reo del riaccostamento italiano ad Austria e Germania; l’Appeso diventa il buon contribuente oberato dalle tasse, nello specifico quelle sul decimo di guerra e sul macinato. Particolarmente espressivi sono i versi che accompagnano la carta della Torre contro la politica coloniale del Governo, il quale aveva occupato la baia di Assab nel 1870 e quella di Massaua nel 1885. Versi profetici, oseremmo dire, in quanto previdero il disfacimento delle ambizioni italiane in Eritrea che avvenne appena un anno dopo a Dogali, il 25 gennaio 1887. Così i versi:

 

Con tant’arte l’avevan fabbricata
A base di perfidia e ipocrisia,
Che di supporla un giorno rovinata
Per lo men reputavano pazzia.

 

Eppur non correrà lunga stagione
Che si vedrà cangiar questa bonaccia
In uragan tremendo, e il torrione
Di sé nemmen più lascerà la traccia.

 

Note

 

1. I Tarocchi Sola-Busca risalgono alla fine del sec. XV. Il loro nome deriva dalla famiglia dei proprietari. Ultimamente sono stati acquistati per la cifra di 800.000 euro (a nostro avviso ben spesi) dallo Stato italiano e donati alla Pinacoteca di Brera. L' autore (probabilmente il miniaturista Mattia Serrati dal monogramma M.S. inciso su numerose carte) non raffigurò nei trionfi le figure tradizionali ma, a parte il Matto, guerrieri e personaggi dell'antichità classica (ad esempio: Lempio, Catullo, Nerone, Sabino, Catone, ecc.) e in due casi personaggi desunti dalla tradizione biblica: Nabuchedenasor (trionfo XXI) e Nenbroto (trionfo XX). Di quest'ultimo è possibile creare un parallelismo con il significato della Torre in quanto il personaggio (la Bibbia lo cita come Nimrod o Nemrod e gli attribuisce l'idea della costruzione della torre di Babele) viene raffigurato di fronte a una colonna colpita da un fuoco scendente dal cielo. Le 56 carte minori presentano, secondo alcuni, scene di un probabile processo alchemico.
2. L'eccellente disamina si deve a Giuseppe Crimi, L'oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello. Roma, Manziana, 2005, p. 210.
3. Sui ‘maccheroni’ con il significato di ‘sciocchi si confronti: Angelico Prati, Vicende di parole. «Il folclore italiano», IX, 1934, pp. 33-35.
4. Cfr. Sonetto Burlesco LXXXI, 5-8 "Questo si è, ch' egli han patito pene / a star tanto in su' libri spenzolati, / sì che meritano d'essere dottorati / e ser Pecora faccia questo bene".
5. Sull'andamento parodico dei versi si confronti Francesco Petrarca, Rime estravaganti, 6, 9-11: "di questa spene mi nutrico et vivo / al caldo, al freddo, a l'alba et a le squille; / con essa vegghio et dormo, et leggo et scrivo", in Francesco Petrarca, Trionfi, rime estravaganti, codice degli abbozzi, a cura di Vinicio Pacca e Laura Paolino. Introduzione di Marco Santagata. Milano, Mondadori, 1996, p. 674.
6. Due sonetti amorosi in Gaspare Sardi, Adversaria […], cod. lat. 228 = ά. W. 2, II, Ferrara, c.1530-1560. Modena: Biblioteca Estense.
7. Venezia, 1543.
8. Nella letteratura teatrale e romanzesca, agnizione esprime la situazione con cui un personaggio viene a conoscere la vera identità propria o di un altro personaggio fino allora per varie vicende ignota.
9. Pietro Aretino, Talanta, comedia. Composta a petitione de i magnanimi signori Sempiterni, e recitata da le lor proprie magnificentie, con mirabile superbia di apparato. Impressa a Vinetia per Francesco Marcolini il mese di marzo nel MDXXXXII [1542], s.n.p.
10. Per comprendere il rapporto intercorrente fra queste categorie di persone e il nome tarocchi attribuito alle carte, si vedano Etimo e significato di Tarocco e Tarocco sta per matto. Per il significato di "mettere cuore" = Far animo, si veda Giovanni Stefano da Montemerlo, Thesoro della lingua toscana nel quale con auttorità de’ piu approvati scrittori copiosamente s’insegnano le più eleganti maniere di esprimer ogni concetto [...]. In Venetia, appresso Roberto Meietti, 1594, p. 48.
11. Merlin Cocai [Teofilo Folengo], Chaos del Tri per uno. In Vinegia, per Giovann’Antonio et Pietro fratelli de Nicolini da Sabio, MDXLVI [1546], cc.70v-71r.
12. Ivi, c. 72v.
13. Fondo P. Giovio, ms. 2.5. I/30, Roma 1550. Como: Biblioteca Comunale. La satira di anonimo fa riferimento al conclave seguito alla morte di Paolo III Farnese dal quale uscì papa il cardinale Gianmaria Ciocchi del Monte col nome di Giulio III (7 febbraio 1550).
14. Thomasino di Bianchi dito de’ Lanzaloti, Cronica modenese. «Monumenti di storia patria delle province modenesi». Serie delle cronache. Tomo XI. Parma, Pietro Fiaccadori, 1878, p. 175. Su questo personaggio autore di satire si veda Pasquino e i tarocchi.
15. Ibidem.
16. Cod. Magliabechiano XXXVII.10. 205. Roma1521, c. 14v. Firenze: Biblioteca Nazionale.
17. Si veda La cassaria dell’Ariosto.
18. Ludovico Ariosto, Le satire. Nuovamente con somma diligentia corrette. In Vinegia, s.e. [Vettor Ravaniani], MDXXXVIII [1538], s.n.p.
19. [Flavio Alberto Lollio], Invettiva di m. Alberto Lollio academico philareto contra il giuoco del tarocco. Ms. CL I, 257, vv.19-23. Ferrara: Biblioteca Ariostea.
20. Ivi, vv.189-204.
21. Vincenzo Imperiali, Risposta all’Invettiva di m. Alberto Lollio contra il giuoco del tarocco. Ms. CL I, 257, vv.160-162. Ferrara: Biblioteca Ariostea.
22. Ivi, vv.217-219.
23. Francesco Berni, Capitolo del gioco della primiera col comento di messer Pietropaulo da San Chirico. Roma, per F. Minitio Calvo, MDXXVI [1526], s.n.p.
24. Ivi, s.n.p.
25. Ivi, s.n.p.
26. Giulio Ferraro (a cura), Drammi rusticali scelti ed illustrati con note, in Teatro italiano antico. Vol. X. Milano, 1812, p. 232. Sul gioco dei trionfetti si veda Trionfi, trionfini e trionfetti.
27. Michelagnolo Buonarruoti il Giovane, La fiera, commedia e la Tancia, commedia rusticale del medesimo coll’annotazioni dell’abate Anton Maria Salvini gentiluomo fiorentino [...]. In Firenze, nella stamperia di S.A.R. per li Tartini e Franchi, MDCCXXVI [1726], p.364.
28. [Bartolomeo Mariscalco], Assetta, commedia rusticale di Bartolommeo Mariscalco [Francesco Mariani], della Congrega de’ Rozzi. In Marocco, presso l’Anonimo stampator del Divano, MDCCLVI [1756], pp. 50-51.
29. Gianmaria Cecchi, Il corredo, comedia. In Venetia, appresso Bernardo Giunti, MDLXXXV [1585], cc. 23v-24r
30. Scrittore francese, Charles de Saint-Évremond (1613-1703) lasciò una vasta serie di scritti, quasi tutti brevi e d'occasione: poesie e lettere galanti, confidenze e riflessioni morali o filosofiche, dialoghi, apologhi, racconti e commedie. I suoi giudizi sulla letteratura e sul teatro lo identificano come una delle menti critiche più acute del secolo. Per questo motivo era ovunque citato e lo si trovava anche lì a Westminster, appunto "come il Matto ne' Tarrochi". Tale espressione significava, oltre al non valere nulla (Si veda Come il matto de' tarocchi del Carducci) essere qualcuno di cui non si poteva fare a meno, in pratica una persona gradita che entrava ben accettato in ogni situazione. Al riguardo così recita nel volume secondo il Vocabolario italiano, e latino ad uso delle regie scuole compilato da Giuseppe Pasini: "Vale entrar per tutto, ed esservi grato, e accetto", p. 393. Scrive Antonio Cesari in una sua novella: "Egli era il primo e più autorevole di quel comune, sindaco, procuratore, arcifanfano, il tutto del luogo, e non era partito da prendere, spesa da fare, trattato, vendita o compera, che fosse non che fatta, ma nè pensata senza di lui che in tutto mettea la mano; ed era come il matto ne' tarocchi; ed era di tutte le cose da popolani creduto meglio che il simbolo degli apostoli; ed oltre a questo, egli sapeva dove il diavolo tien la coda, ed era di acuto conoscimento", Antonio Cesari, Novelle. Napoli-Roma, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1872, p. 156.
31. L'espressione "di corta suppellettile" significa che Saint-Évremond era considerato (a torto) dallo scrittore un autore di scarsa importanza. In senso figurato, infatti, per suppellettile si intende l'insieme delle nozioni che arricchiscono la cultura fondamentale. La definizione ‘corta’ lo identifica come un autore che ha arrecato uno mediocre contributo al sapere.
32. Giuseppe Baretti, Scritti scelti, inediti o rari con nuove memorie della sua vita. Milano, per G.B. Bianchi e C., MDCCCXXII [1822], p. 329.
33. "Sciamilo dicevasi una spezie di drappo di più sorta e colori, che forse risponde al raso de' nostri giorni. Da un luogo della presente Commedia si sa che ci erano sciamiti di Cipri; e da un altro apparisce che fossero tessuti bianchi o del color naturale della seta, e poi tinti" (Nota di Gaetano Milanesi curatore di un'edizione delle Commedie pubblicata a Firenze nel 1856, p. 290).
34. [Giovanni Maria Cecchi], Commedie di Giovanmaria Cecchi notaio fiorentino del secolo XVI. Pubblicate per cura di Gaetano Milanesi. Vol. I. Firenze, Le Monnier, 1856, pp. 290-291.
35. Ivi, p. 308.
36. Ivi, p. 36.
37. Di Gianmaria Cecchi si vedano altri passi di commedie in I tarocchi in letteratura II.
38. L'espressione Tricche tracche venne utilizzata per spiegare il suono di cosa che impetuosamente scoppiava e lo strepito delle mani battute contro colui che era alla berlina. La Crusca non la riporta, mentre fu usata dal Burchiello "Ogni castagna in camicia e pelliccia / scoppia e salta pel caldo e fa tric tracche".
39. Giovanni Battista Marini, La Murtoleide, fischiate del cavalier Marino con la Marineide risate del Mutola. Francofort, appresso Giovanni Beyer, 1626, p. 31.
40. Alessandro Tassoni, La secchia rapita, poema eroicomico [...]. S.l., s.e. [G.B. Brogiotti], s.d. [1624], c. 137r.
41. Di significato leggermente diverso è l’espressione ‘contare quanto il re o fante di picche’, cioè non contare nulla.
42. A. Tassoni, La secchia rapita cit., cc. 139r-v..
43. Alessandro Tassoni, Le lettere tratte da autografi e da copie e pubblicate per la prima volta nella loro interezza da Giorgio Rossi, in Collezione di opere inedite o rare dei primi tre secoli della lingua, pubblicata per cura della R. Commissione pe' testi di lingua nelle provincie dell'Emilia. Vol. 84. Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1901. Libro IV (1625-1632). Lettera CCCXLII (1), p. 313.
44. Ivi. Lettera CDXXVI (84), p. 381.
45. Ivi. Lettera CDXXVIII (86), p. 383.
46. Cachinno: letteralmente ‘risata strepitosa’ qui ad indicare una risata gentile.
47. “Benigno lettore” s.n.p.
48. [Vincenzo Belando], Gli amorosi inganni. Comedia piacevole di Vincenzo Belando detto Cataldo sicil.no [...]. In Parigi, appresso David Gilio, nella strada di S. Giacomo all’insegna delle tre corone, MDCIX [1609], pp. 47-48.
49. Si veda in particolare Trastulli della villa - Trastulli della corte.
50. Camillo Scaligeri dalla Fratta [Adriano Banchieri], Il furto amoroso. Comedia onesta, et spassevole, nuovamente data in luce per sfuggir l’otio, con gustosi intermedi innapparenti, & apparenti a ciascun atto appropriati. In Venetia, appresso Giacomo Vincenti, 1613, p.107.
51. Sul significato della parola tarocco come pazzo si vedano Etimo e significato di Tarocco e Tarocco sta per matto.
52. Girolamo Gigli, Il don Pilone ovvero il bacchettone falso, commedia [...]. S.l., s.e., s.a. [1712], p. 240.
53. Si ricorda il successo della traduzione tedesca curata da Schopenhauer.
54. A Amsterdam, en casa de Ivan Blaev, MDCLIX [1659].
55. Vincenzo Giovanni De Lastanosa, Oracolo manuale e arte di prudenza, cavata dagli aforismi che si discorrono nell’opre di Gratiano. In Parma, per Mario Vigna, s.d., [1670].
56. Lorenzo Franciosini, Vocabolario español, e italiano, aora nuevamente sacado à luz. Segunda parte. S.l., s.e. [Samuel Chouët], s.d. [1665].
57. Ivi, p. 486.
58. Lorenzo Franciosini, Dialogos apazibles, compuestos en castellano, y traduzidos en toscano - Dialoghi piacevoli composti in castigliano e tradotti in toscano. In Geneva, appresso Leonardo Chouër, et socij, MDCLXXXVII [1687], pp. 17-18.
59. V.G. De Lastanosa, Oracolo manuale cit., pp. 83-84.
60. Ms. 8583, cc. 258-269. Pavia 1525-1540. Parigi: Bibliotèque de l’Arsenal. Le intere terzine sono riportate nel volume Bologna & the Tarot a cura di Andrea Vitali e Michael Howard (si veda nota successiva)
61. Venezia, 1534. Un’ampia disamina di questo e dei componimenti sui tarocchi appropriati qui citati, completi di tutti i loro versi, è stata compiuta da Andrea Vitali e Michael Howard in Bologna & the Tarot. An Italian legacy from the Renaissance. Bologna, Hermatena, 2022, pp. 117-150.
62. In Gaspare Sardi, Adversaria [...], cod. lat. 228 = ά. W. 2, II. Ferrara, ca.1530-1560. Modena: Biblioteca Estense.
63. Si veda il saggio omonimo.
64. Si veda il saggio omonimo.
65. Si veda Giulio Cesare Croce e i tarocchi.
66. Ms. 3938 / CIII /25. Fondo Ubaldo Zanetti, sec. XVIII. Bologna: Biblioteca Universitaria.
67. Ms. 83 / 9. Fondo Ubaldo Zanetti. Bologna, sec. XVIII. Bologna: Biblioteca Universitaria. Per i tarocchi appropriati sulle minchiate si veda Le minchiate e i germini in letteratura
68. Girolamo Bargagli, Dialogo de’ giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare. Del Materiale Intronato. In Siena, per Luca Bonetti, 1572, p.77.
69. Altri documenti che riguardano in particolare il gioco dei tarocchi e anche il loro ordine si trovano in Tommaso Garzoni da Bagnacavallo, La piazza universale di tutte le professioni del mondo. Venezia, 1585; Alessandro Citolini da Serravalle, Tiposcomia. Venezia, 1561 (Si veda nota 22 in Rochi e Tarochi); Sperone Speroni degli Algarotti, Trattatello sul gioco. Venezia, c. 1570.
70. Serafino de' Ciminelli, Le rime, 1. Bologna, Ed. Mario Menghini, 1894 (1896), pp. XLIII-XLIV. Lo Strambotto in questione venne fatto conoscere da Thierry Depaulis nell’articolo Early Italian list of tarot trumps. «The playing-card» 36, no 1, luglio-settembre 2007, pp. 42-47.
71. Eccetto lo Strambotto de triumphi portato a conoscenza da Thierry Depaulis e il Primo libro delle lettere del Martelli individuato dallo scrivente, gli altri documenti della miscellanea furono fatti conoscere da Franco Pratesi, a cui si deve un infaticabile lavoro di recupero di testi rinascimentali sul gioco dei tarocchi. Da parte nostra dobbiamo sottolineare che l'espressione "Poco starete a far gemini dei tarocchi con Livia" riportata nella Cortigiana da Pietro Aretino, non significa "giocherete poco ai Germini con Livia" ma "avrete scarse possibilità di giacere con Livia". Al riguardo si veda I tarocchi in letteratura III.
72. Francesco Berni (et alt.), Il secondo libro dell’opere burlesche di m. Francesco Berni, del Molza, di m. Bino, di m. Lodovico Martelli, di Mattio Francesi, dell’Aretino, et di diversi autori. In Fiorenza, apresso li heredi di Bernardo Giunti, MDLV [1555], cc. 161r-162r.
73. Emilio Bogani, Il giardino di Prato: lieti convegni e molli amori del ‘500 pratese e fiorentino nelle testimonianze poetiche di Nicolò Martelli e Bindaccio Guizzelmi. Prato, Edizioni del Palazzo,1992, pp. 143-151.
74. Nicolo Martelli, Il primo libro delle lettere. In Firenze: a instanza dell'auttore l’anno MDXLVI [1546] adi XVIII del mese di giugno, cc. 13v-14r.
75. Benedetto Varchi, L’Ercolano, dialogo nel quale si ragiona delle lingue, ed in particolare della toscana e della fiorentina. Colla correzione ad esso fatta da messer Lodovico Castelvetro [...]. In Padova, appresso Giuseppe Comino, 1744, pp. 173-174
76. Giambattista Roberti, Le perle, poemetto. In Bergamo, per Francesco Locatelli, MDCCLXXI [1771], pp. IV-V.
77. Dizionario letterario Bompiani. Opere VI, p. 214.
78. Niccolò Carteromaco [Niccolò Forteguerri], Ricciardetto. Tomo primo. Parigi, a spese del Colombani librajo di Venezia, MDCCLXV [1765], p. 306.
79. Ivi, p. 318
80. [Giovan Santi Saccenti], Le rime di Giovan Santi Saccenti da Cerreto Guidi accademico sepolto [...]. Tomo primo. Firenze, si vende da Gaspero Ricci librajo da S. Trinita, 1808, p. 6.
81. Giovan Santi Saccenti, Raccolta delle rime piacevoli non mai per avanti pubblicate. Tomo secondo. In Roveredo, s.e., l’anno 1761, p. 106
82. Giuseppe Vollo, Tutto è un sogno, dramma. Torino, Tip. Steppenone, Comandona e C., 1857, p. 36.
83. Granda dei tarocchini, ms. A 1920, parte II, pp. 1/3 e 1/4; Applauso p. 1/5. Bologna: Biblioteca dell'Archiginnasio.
84. Ms. B 3949, carpetta 11, foglio tt. Bologna: Biblioteca dell'Archiginnasio.
85. Ms. 3935, caps. C - carpetta con indicazione MSS C 22, p. 57. Bologna: Biblioteca Universitaria.


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