di Margherita Calzoni (Articolo pubblicato sul giornale SETTESERE il 20 aprile 2018)
Molto spesso sentiamo parlare i media di una piaga che, sembra, moderna: la ludopatia, ovvero la dipendenza dal gioco d’azzardo. Numeri di soccorso sono pronti a ricevere chiamate di scommettitori pentiti che, per vizio o speranza, cercano l’ebbrezza della scommessa. Scopriamo però, interrogando il Prof. Andrea Vitali, Presidente dell’Associazione Culturale Le Tarot di Faenza, medievista e storico del simbolismo che, come ludopatici siamo ora, ludopatici erano anche i nostri antenati romagnoli e non solo.
Tutto inizio nell’età del ferro (XII sec. a.C.): nel 1968 la terra di Faenza diede alla luce un dado d’argilla risalente ad un insediamento umano di quell’età. Ai dadi, nel Rinascimento, si aggiunsero anche giochi di carte: i naibi, probabilmente di origine cinese. Nessuno però tra gli antichi cronisti ci tramanda la data in cui il mazzo di 40 carte fece la sua comparsa in Romagna, per scopo di svago, cartomanzia o azzardo.
Vediamo ora l’evoluzione del gioco aleatorio in terra romagnola: le maggiori informazioni vengono attinte da statuti comunali, sinodi diocesani, bandi ed archivi notarili. Prima che venissero in voga le carte, il gioco dei dadi, nell’età dei comuni e delle signorie, era il più diffuso e popolare in Romagna, tanto che lo stesso Dante, durante il soggiorno a Ravenna, avendolo sperimentato, lo inserì nel canto VI del Purgatorio: “quando si parte il gioco di zara colui che perde si riman dolente, repetendo più volte e tristo impara”. I governatori di allora, come i moderni, crearono la pubblica bisca: abbinata al bordello, veniva affidata al migliore offerente. Dall’archivio dei Manfredi, scopriamo che nel 1320 il Comune di Faenza appaltò la sua bisca ad una società, con precise condizioni: il pagamento di una tassa, che chiunque potesse giocare a volontà, che fosse consentito agli avventori offendersi e fare a pugni, ma senza spargimento di sangue. Negli stessi anni, altrettanto succedeva a Imola, Predappio, Ravenna, Forlì e Rimini. Nel tempo quindi, aumenta la passione per l’azzardo causando gravi danni e disordini in ogni ceto sociale, e di conseguenza una crisi nell’economia di intere comunità: bancarotte, furti, omicidi, discordie familiari e risse erano all’ordine del giorno. Furono quindi prese contromisure: gli Statuti Faentini del 1410, così come quelli di Brisighella, prevedevano multe, prigione, esilio o taglio della mano destra per i bari. Decretarono inoltre che ai minori di 25 anni non si potessero alienare beni, visto che molti giovani erano caduti in miseria, trascinando con loro le famiglie.
Nel 1423 la fervente predica contro l’azzardo di San Bernardino da Siena si svolse a Bologna nel periodo di Quaresima: queste requisitoria ebbe come conseguenza il falò di numerosi giochi ludici (tra cui carte composte da figure dei 4 semi), consegnati direttamente dal popolo istigato dalle parole del Santo. Le carte, quindi, cominciano a soppiantare i “vecchi” dadi.
Lo scrittore Thomaso Garzoni di Bagnacavallo (1549-1589) nell’opera “Il Theatro dé Cervelli” parla di giochi proibiti “de’ dadi, de’ carte, e di tutte le sorti, e similmente di tutti i tripudii pieni di mollitie et di lascivia; ne’ quali intervengono mille peccati il giorno, e l’hora”: anche in questo caso l’azzardo viene visto come il più basso e volgare dei passatempi, portatore di inganni, ira, bestemmie, ingiurie e villanie, quindi anche foriero di peccato e, di conseguenza, disprezzato dalla Chiesa.
Seguì poi una fase prospera e più severa nei costumi sotto la guida illuminata di Carlo II Manfredi (1468-1477), che riguardò la Valle del Senio ed in particolare Riolo, suo capoluogo: il gioco d’azzardo era severamente bandito e la valle divenne zona intensa di produzione artigianale ed agricola. Purtroppo, con la caduta di Carlo II e l’avvento della signoria di Girolamo Riario, si ebbe un successivo degrado economico e sociale. Vennero istituiti bachi di prestito su pegni e in pochi anni il Castello di Riolo divenne porto franco per biscazzieri e giocatori. Anche la vicina Brisighella venne contagiata dal vizio. Il 4 novembre 1504 la situazione cambiò improvvisamente: Papa Giulio II, con l’emissione della Bolla D’oro, fece sì che la Valle del Senio venisse assoggettata ad Imola. I mazzi di carte scomparirono velocemente, così come gli usurai, che da Riolo si trasferiscono a Cesena e Castelbolognese.
Analizziamo la situazione nel 1500: lotte fra guelfi e ghibellini, invasioni straniere, le nascenti eresie, l’inefficienza della giustizia e della legge, il pessimo esempio del clero, fecero sì che il mal costume ed il gioco d’azzardo andasse in ripresa. Nel 1523 il Consiglio Generale della città di Faenza modificò gli statuti: vennero proibiti i giochi di tasselli, dadi, tavole, esclusi scacchi e dama. Una grave denuncia del rilassamento dei costumi del clero viene da Fra Sabba da Castiglione, il santo frate che viveva nella chiesa faentina della Commenda: in sostanza, se i religiosi sono un pessimo esempio, figuriamoci i laici!
Nell’Imolese la corruzione appare meno accentuata che nel Faentino, forse anche perché, dal 1533, quella diocesi era retta da cardinali vescovi, che riuscirono fermamente a far valere la loro autorità.
Agli albori del 1600, la generale decadenza della cultura e dei costumi, la passione per l’azzardo come un morbo cominciò a contaminare la società in ogni suo ordine e grado sociale. Il vizio del gioco fu causa di corruzione e disordine sociale, miserie e lutti domestici, malattie, bancarotte, liti, scandali, tradimenti, omicidi, faide familiari ed altro. In Romagna, più che in altre regione, si continuò a biscazzare ovunque: nei palazzi, fossero questi gentilizi, apostolici o borghesi, nelle osterie, nelle caserme, nelle canoniche e perfino nei cimiteri. Erano i tempi in cui i cardinali Borghese, Medici, Ludovisi, Torres e Rivarola puntavano su una carta migliaia di ducati. Si ricorda il caso di don Domenico Lippi, prete mordanese che venne accusato nel 1620 di aver detto una bestemmia ereticale durante una sfortunata partita a sbaraglino. Si scusò dicendo: “la m’è scapa’!”.
L’inizio del 1700 vede abbassarsi la febbre del gioco: Papa Innocenzo XII, poi Clemente XI ed altri papi, riportarono disciplina e pulizia morale nello Stato e nella Chiesa. Nella seconda metà del secolo il vizio va pian piano rinfocolandosi e torna a costituire un problema di ordine pubblico. Un esempio del tentativo di risolverlo è riportato nel bando del 15 ottobre 1782 del Card. Valenti Gonzaga, legato alla Provincia di Romagna e all’esarcato di Ravenna, che richiama il bando del 20 agosto 1757 del predecessore Card. Stoppani. Dopo una disamina morale, si passa ad una analisi della situazione dell’epoca: c’erano giochi per tutti i gusti, per maschi e femmine, nobili e plebei, laici e religiosi. Il bando prosegue poi con le pene da infliggere ai giocatori, molto severe: dalla multa al rogo degli oggetti di gioco, si passa alla confisca delle case ospitanti e del denaro intercettato.
La Rivoluzione Francese (1789-1799) portò in Romagna radicali sconvolgimenti di idee, di principi politici, di rapporti sociali. Il vizio aleatorio tornò a contagiare ogni ambiente, tornando all’intensità del 1600. Il regime napoleonico non trovò tempo e mezzi sufficienti a reprimerlo: si limitò a colpire con apposite leggi l’esercente che tollerava il gioco.
Al tramonto dell’impero napoleonico i danni ed i disordini provocati dal gioco erano tali che lo stesso re Gioacchino Murat, durante la sua effimera reggenza delle nostre province, ritenne necessario e urgente ordinare, il 12 marzo 1814 che “in nessun luogo provvisoriamente occupato dalle di Lui armi, si permettesse o si tollerasse l’esercizio di detti giochi”. Verso la metà del 1800 le bische, grandi e piccole, erano ovunque e venivano frequentate addirittura da contadini, ceto per tradizione sobrio e laborioso. Nello stesso periodo gli scrittori Gian Matteo Annicchini, per il territorio di Bagnacavallo e Antonio Metelli, per il territorio di Brisighella, notarono come la “smania del lusso e il disordine avessero ridotto il popolo da parco e massaro a sprofondarsi nella crapula”. Il fenomeno del banditismo, che per lungo tempo imperversò nelle nostre terre, fu in generale generato dall’azzardo. Stefano Pelloni (1824-1851), il Passatore, i suoi complici ed emuli, erano giocatori accaniti che per rifarsi delle perdite subite “alla tagliata”, scesero in strada, come risulta dalle loro confessioni.
Nella Belle Epoque romagnola (1871-1914) nei circoli cittadini l’azzardo era di casa; veniva perseguito nei locali malfamati e nelle case private, con scarso successo. Nei primi anni del ‘900 le Terme di Riolo videro la nascita di un Casinò: una casa da gioco stagionale i cui maggiori clienti erano forestieri. Per qualche tempo le autorità chiusero un occhio poi, quando il Casinò assunse vaste proporzioni minacciando uno scandalo, dovettero intervenire. L’irruzione della polizia lasciò gli agenti sorpresi: trovarono solo onesti cittadini intenti nei più semplici intrattenimenti. In realtà i giocatori erano stati avvertiti della imminente irruzione della polizia da una soffiata e fecero in modo di nascondere ogni indizio di gioco illecito.
Neanche la seconda guerra mondiale (1939-1945) spense la passione per il gioco: c’è chi giocava fra le macerie e nei rifugi, nelle caserme o al fronte, dove i giocatori Romagnoli formavano sempre una bisca; perfino nei campi di prigionia, dove non essendoci soldi si giocava sulla parola, promettendosi dei pagherò.
Lo storico saggista olandese Johan Huizinga (1872-1945) formulò la teoria che, nel lungo processo evolutivo dell’uomo, ogni attività umana è orientata verso il gioco. Quindi egli non parla più di homo sapiens o homo faber, ma bensì di homo ludens. Antico quanto l’uomo, l’istinto dell’azzardo è in molti potente ed insidioso. Fino a questo punto non si è mai parlato dei vincitori: il fortunato di oggi, se non ha la forza di smettere di giocare, diventa il perdente di domani e quindi non si hanno casi clamorosi di vincitori assoluti.
Davanti a questo fenomeno, lo Stato, impotente e nello stesso tempo lassista, trova redditizio alimentare il vizio e speculare, diventando il detentore del banco.
Un articolo tratto da La Repubblica.it del 3 ottobre 2017 ci segnala la situazione attuale: “l’Italia vanta un primato europeo non tra i più ambiti: una slot machine ogni 143 abitanti, lontanissima da Spagna (una per 245 abitanti) e Germania (una per 261). Slot da intrattenimento e videolottery sono le tipologie che, assieme, raccolgono il 51% da gioco d’azzardo; seguono i giochi di carte (17%), le lotterie e il gratta e vinci (9%), il lotto (8%) e via via le altre attività. La raccolta risulta in costante crescita dal 2008, quando era stata di 47,5 miliardi, arrivando a raddoppiare lo scorso anno. Il tutto con 206 sale bingo, 1.333 luoghi di scommesse sportive, 237 per i giochi d’ippica e 3.160 per le scommesse ippiche, 5 mila sale videolottery, 33.800 luoghi per giochi a totalizzatore, 34 mila ricevitorie del lotto, 63 mila punti di vendita per le lotterie, 85 mila esercizi commerciali con slot. E i tantissimi siti Internet di scommesse online (6 mila dei quali inibiti dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli) (fonte: Agenzia delle dogane e dei monopoli). La Lombardia è la regione che più contribuisce alla raccolta del gioco d’azzardo (19,5%), seguita da Lazio (10,6%), Campania (9,8%), Emilia-Romagna (8,3%), Veneto (8,1%) e via via tutte le altre”.
Questo excursus sul gioco d’azzardo può essere interessante per chi ama la storia, per chi è curioso delle proprie origini, per chi magari ama il gioco, che sia una tranquilla partita di briscola o una scommessa al lotto.
Interessante osservare come ciclica sia la fortuna e la sfortuna del gioco stesso: a momenti di forsennato scommettere si alternano momenti di rigidità dei costumi.
Tra alternanze di mode che immancabilmente ritornano, tra incalcolabili nuovi giochi di fortuna, nel barcamenarsi del vivere quotidiano, la storia si ripete, scommettiamo?