di Giuseppe Maria Silvio Ierace
Rappresentare idee astratte con concrete raffigurazioni da portare in trionfo su appositi carri fu una consuetudine romana, che si conseguiva, nel Foro, percorrendo la Via Sacra, sino a salire sul Campidoglio, per deporre, nel tempio di Giove Feretrio, spolia opima (da Ops, ricchezza: bottino abbondante).
Secondo lo storico Annaeus Florus (Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 5. 6), a impiegare un cocchio trainato da una quadriga, che divenne il tradizionale simbolo della vittoria, sarebbe stato il quinto re, etrusco di origini greche, Tarquinio Prisco, fin quando l’edificazione d’un monumento a forma di porta fortificata non rese equivalenti alla fama gli archi, “trionfali”, nell’Urbe, e semplicemente “onorari” altrove, a partire dai fornices di Lucio Stertinio, davanti ai templi della Fortuna e della Mater Matuta, nel Foro Boario, decorati con statue (signa) dorate, all’arcus aureus Alexandri , in Campo Marzio.
Nel Rinascimento, quest’usanza veniva rinnovata dall’ammirazione per il mondo classico, di modo che l’interesse per questo tipo di cerimonie subì delle modifiche nel senso d’una glorificazione di valori sempiterni. Ma è con il Petrarca che un tal genere di rappresentazione allegorica raggiunge la sua massima espressione e, a compendiare tutto il pensiero del poeta, sono appunto i Trionfi, fissati in numero di sei: Amore, Pudicizia, Morte, Fama, Tempo, Eternità.
In un giorno di primavera, a Valchiusa, il poeta sogna il passaggio di un carro, seguito da una schiera di seguaci, che finisce per approdare a Cipro, l’isola in cui nacque Venere. Laura sottrae al corteo illustri personaggi, come Didone, e giunge a Roma, presso il tempio della Pudicizia Patrizia. La rievocazione d’antiche memorie rammenta la caducità e l’oblio, al quale si sottraggono gli eroi e i filosofi, il cui principale rappresentante è, per lui, Platone, invece di Aristotele, di fronte a una fugacità dalla quale si può trovare rifugio solo in Dio.
I Trionfi
Una volta assurta a immagine ormai popolare, l’idea petrarchesca diverrà oggetto d’attenzione da parte degli illustratori che la riproporranno ancora in raffigurazioni da montare su carri allegorici e non solo, perché le riprodurranno anche in tavole fuori testo, cassoni nuziali, deschi da parto (come la tempera su tavola, Trionfo della Fama, dipinta dallo Scheggia in occasione della nascita di Lorenzo il Magnifico), ecc., a prova inconfutabile della diffusione e notorietà, consenso e successo della comunicativa per immagini.
Le nove tele, più un disegno, del Mantegna, ispirate al popolarissimo De Roma triumphante (1459) di Flavio Biondo, danno ampi spaccati di paesaggi, con vedute ricche di edifici monumentali e, in primo piano, eserciti con vistose macchine belliche come catapulte, arieti e torri e, nell'ultimo tabellone, una città data alle fiamme. E ancora, panoplie, la testa di un bue sacrificale, mascheroni, coppe, vasi, fiaccole, ghirlande, pennacchi, tra putti con rametti d’alloro. Alla settima scena, la donna dai turgidi seni ben esposti, con un infante stretto sulla destra, nell’atto di piegarsi contro-lateralmente al pargoletto, ai suoi piedi, che alza la gamba sinistra, come per voler esser preso in braccio e allattare anch’egli, e il cagnolino dalla criniera leonina rivolto verso il guardone deforme, bonariamente redarguito da chi lo sovrasta, è un vero capolavoro di allusiva freschezza e seducente familiarità, dipinta, come dice il Vasari, "con modo grazioso e molto naturale".
Découpage o collage ante litteram?
Questi esempi non forniscono prove, ma semplici indizi circa un gioco artistico collettivo, da far risalire a quegli amanuensi che arricchivano in questo modo i loro manoscritti, e che potrebbe porsi alle origini degli Arcani maggiori dei Tarocchi, una sorta di découpage con il quale s’individuavano alcuni punti fissi in grado di definire i lineamenti generali del paesaggio, onde frammentarlo in scene che si sarebbero potute succedere una dietro l’altra: il sole, la luna, le stelle, il carro, la torre, l’albero, il fiume, la terra, o il mondo…
La più recente tecnica del collage parte invece dall’estremità opposta dei tanti particolari tra loro accostati affinché raffigurino un unico ambiente caratterizzato dai singoli elementi che contribuirebbero a definirlo in un insieme.
Nel Canzoniere petrarchesco le metafore più ricorrenti sono quella del Pellegrino (Eremita), immagine di alienazione e sofferenza già presente nella Bibbia, a cui viene ad aggiungersi quella propria dei poeti provenzali, riferita al "pellegrino d'amore", e ripresa anche nella poesia stilnovistica (“Muovesi ‘l vecchierel canuto e biancho”, del sonetto 16); la Fenice che muore per poi risorgere dalle proprie ceneri; la Nave, a significare la vita tempestosa in cerca d’un porto sicuro di salvezza; la Neve, cui è paragonato il pallore luminoso di Laura, come d’ogni altra virtù.
“Poscia m’addormentai così pensoso/ ed apparvonmi cose, nel dormire,/ per che a la mia impresa fui più oso:/ ché una donna vedea ver me venire/ con l’ali aperte, sì degna ed onesta,/ che per asempro a pena il saprei dire./ Bianca, qual neve pare, avea la vesta/ e vidi scritto, in forma aperta e piana/ sopra una coronetta, ch’avea in testa:/ “Io son Virtù, per che la gente umana vince ogni altro animale; i’son quel lume,/ ch’onora il corpo e che l’anima sana”.
Nel XIV secolo, per le strade di Firenze, i carri trionfali cantati erano divenuti spettacolo pubblico, tanto da dare spunto a tutt’una letteratura particolare, dai Canti Carnascialeschi al Dittamondo di Fazio degli Uberti. A Milano, da parte del segretario ducale Marziano de’ Rampini da S. Aloisio, detto da Tortona, vengono commissionate a Michelino de’ Molinari da Besozzo le carte numerali (il mazzo degli Dei), coi semi zoomorfi (Aquile, Falconi, Cani, Colombe, corrispondenti a Virtù, Ricchezza, Castità, Piacere) e quelle di corte con annesse divinità (rispettivamente: Giove, Apollo, Mercurio, Ercole; Giunone, Nettuno, Marte, Eolo; Diana, Vesta, Pallade, Dafne; Venere, Bacco, Cerere, Cupido). Non si trattava molto verosimilmente solo d’un gioco d’azzardo, bensì anche d’erudizione e sul tavolo si andavano a scontrare eroi della Virtù contro quelli della Ricchezza o della Castità contro quelli del Piacere, per far sì, forse, che Virtù e Castità si alleassero contro lussuria e vizi. Quello di Marziano da Tortona fu il primo manuale d’istruzione per un gioco, dove oltre all’esposizione delle regole, si spiegano le allegorie da rispettare nei loro simbolismi pure in campo ludico, per ribadire quella concezione che vuole didascalico il fine ultimo di tutti i giochi.
Virtù, cuori e coppe
L’Eternità supera il Tempo, che sconfigge la Fama, come la Morte fa perire Laura, la quale, per Francesco, aveva sbaragliato la Lussuria. La denominazione di "trionfo" per briscola sarebbe forse da rintracciare nel mazzo quattrocentesco dei tarocchi, i cui Arcani Maggiori erano chiamati ancora trionfi, dove la sequenza a scopo didattico (… Giustizia, Fortezza, Temperanza) del quinto seme, appunto dei trionfi, nelle finalità ludiche, tagliava le carte dei semi ordinari. Il seme di briscola era definito "trionfatore" e le sue singole carte "trionfi". Trionfo divenne allora la parola che identificava la briscola non solo in Italia e in Spagna, ma pure in Germania (trumpf) e Inghilterra (trump).
Tra valutazione del rischio (o incertezza tra probabilità conosciute), e dell’ambiguità (dove le probabilità sono ignote), s’inserisce la fiducia nella costante esistenziale dell’oscillazione del tempo, per cui una scelta potrà rivelarsi relativamente giusta o sbagliata. “In dubbis, cuppis” non è che una scherzosa parafrasi, in latino maccheronico, dell’adagio “in dubis cupis”, cioè “nel dubbio, si vuole!” (ciò che si brama), dove le coppe (cuori, sesso amore) s’incastrano di diritto a risolvere l’esitazione, mediante la rassegnazione all'idea di perdita o punizione, assecondando il volere del fato, o dell’inesorabile giudizio divino, dettato dall'espressione “bere l’amaro calice”, o anche “la rabbia di Dio”; e “bere fino alla scoria” dichiara sopportazione rinunciataria. Poi coppe, denari, bastoni e spade divengono cuori, quadri, fiori e picche, attraverso la mediazione dei semi tedeschi; il trèfle (simile alla foglia del trifoglio) deriva presumibilmente dalla ghianda, e il pique, derivato della foglia, va ad assumere il nome dell'arma. In Inghilterra vengono usati i semi francesi, denominati hearts (cuori), clubs (bastoni, ma ovviamente sono i fiori), spades (vanghe, a indicare le picche) e diamonds (quadri).
Il motivo principale del successo dei semi francesi e della loro diffusione nel mondo è legato probabilmente all'economicità della loro stampa; infatti, la stilizzazione di cuori, quadri, fiori e picche risulta indubbiamente più facile ed economica da riprodurre rispetto ad altri disegni ben più elaborati; addirittura, l'arte di incidere il legno, che alla fine condusse all’invenzione della stampa, potrebbe esser nata proprio dalla necessità di stampare le carte da gioco.
E il gioco con le quaranta carte regionali, preferibilmente di tipo "romagnolo", è una variante ferrarese del Madrasso (in Croazia: trijumf, ovvero spizzichino, se per due giocatori), Pastorino, Maraffa, Marafone, Beccaccino o Pirucco, oppure della Calabresella, Mediatore, Bellora, Fischione (o ancora Terziglio, Quartiglio, Quadriglio, Quadrigliato, Quintiglio, Quintino, Sestiglio o Settiglio, a seconda del numero dei partecipanti).
Et in Arcadia Ego
“In dubbis, cuppis”, certamente meno di “bere l’amaro calice”, riprenderebbe quel Memento mori dell’umile servo che proteggeva dalla superbia il vittorioso condottiero romano a cui venivano tributati i più alti onori; venne poi ricordato dalle varie danze macabre, in cui i vivi incontrano i morti, ancor prima del “Giorno dell’Ira”. Scene d’amor “cortese”, tipiche del gotico internazionale, ritraggono, fra suoni e canti, giovani spensierati, seduti su di un prato smaltato di fiori, all'ombra di profumati aranceti, e sono quei Dieci giovani nel verziere dell'opera di Buonamico Buffalmacco, ripresi in parte dal Guercino e da Poussin nel rimarcare l'onnipresenza, e nel tempo e nello spazio, dell’incombente fine del godimento della vita: “Et in Arcadia Ego”.
"Mundus transit et concupiscentia eius" ("Il mondo passa e così la sua concupiscenza") si legge nella prima Lettera di Giovanni (2,17). “Tetelestai” (consummatum est, tradotta letteralmente, tutto è finito, dal vangelo di Giovanni: XIX, 30), sia nel senso della realizzazione teleologica di una missione, sia nell’accezione della compiaciuta preveggenza del medico e astrologo Angelo Catone di Supino, viene ritualmente riecheggiata sui tavoli verdi dal “Rien ne va plus, les jeux sont faits”.
L’Amoreaux, le Chariot, la Justice, l’Hermite, La Roue de Fortune, la Force… completano la scansione che da Laura porta all’Eternità. I Trionfi del Petrarca articolano il declinarsi dell’esistenza, fornendo dimensione planetaria a una nuova specie d’umanità, non più asservita, come in Aristotele, alle varie età della vita (adolescenza, gioventù, virilità e vecchiaia), bensì all’Amore, alla Pudicizia, o alla Castità, assurta a condizione necessaria per concentrarsi su quanto si giudica più importante, la consacrazione ufficiale di Poeta, vale a dire l’aspirazione alla Laurea.
Un tale riconoscimento, per Petrarca, è necessario allo scopo di conservare un imperituro ricordo (la Fama) presso i posteri, del valore dei suoi scritti, ivi compresa anche la poesia amorosa concepita, “per carezzare le orecchie del volgo”, ovvero “Fragmenta rerum volgarium”, come le Nugae di Catullo. Il trionfo dell’Eternità è auspicato e desiderato come “lo star delle cose che ‘l ciel volge e governa”, poiché il Tempo e la Morte sono “a’ gran nomi gran veneno”.
“...Né fia, né fu, né mai, ne inanzi, o ‘ndietro, ch’umana vita fanno varia e ‘nferma!”; quindi non più ieri, oggi o domani, ma l’accorata realtà che circonda il Sé, nel desiderio di eludere termini prefissati, come a tramandarsi alle genti di là da venire. In tal guisa, ossequiato e ascoltato, il suo pensiero sarebbe sempre d’aiuto a ogni uomo nel raggiungere quel giusto equilibrio, che costituisce la saggezza (aristotelica), per vivere ogni età della vita, e dunque passato, presente e futuro nel modo più nobile e onesto.
In età giovanile a dominare l’uomo è l’appetito dei sensi (Trionfo dell’Amore); subentra poi la ragione e, sotto le parvenze di Laura (la Laurea di Poeta), la castità, a far soccombere la sensualità (Trionfo della Pudicizia). Ben presto l’esistenza ci avvisa però che il destino di tutti è inevitabile (Trionfo della Morte) e, solo mantenendo attuali le rimembranze, si può sopravvivere nella memoria (Trionfo della Fama). Il trascorrere dei secoli corrompe ogni ricordo (Trionfo del Tempo) e solamente il giudizio universale può fare giustizia di tutto l’effimero, collocando quanto vale nell’immutabile immortalità (Trionfo dell’Eternità).
Secondo trionfo: l’amore per Laura
L’amore per Laura (secondo trionfo) è il tema obbligatorio della poesia cortese, che esprime l’esaltazione giovanile della sensualità sublimata in una conseguente aspirazione meno carnale. Una regola questa seguita da tutti quelli che dedicano ardenti versi alle loro Dame e Madonne, già anello di congiunzione tra un’umanità indegna e il divino. Le varianti della dedizione amorosa non si discostano dalla devozione aristocratica al tema platonico e le pene dell’anima non vengono mai consolate dal precario desiderio di abbandonarsi completamente a una gioia momentanea. Quest’eterno dissidio fra coscienza umana e divina potrebbe risolversi, grazie al processo di elevazione morale e spirituale, che sia la sublimazione, sia l’educazione letteraria consentono a pochi.
Il secondo trionfo, ovvero l’amore per Laura, viene sostenuto, quindi, dall’argomentazione classica sulla Castità, ripresa da Livio (X.23), che esalta l’antica divinità della Pudicitia Augusta, preposta alla morigeratezza coniugale delle matrone romane, alla quale era dedicato un Tempio nel Foro Boario.
“… Per spegner ne la mente fiamma insana/ passammo al Tempio poi di Pudicizia/ ch’accende in cor gentile oneste voglie/ non di gente plebeia ma patrizia./…Lucrezia da man destra era la prima/ L’altra Penelope: questa gli strali/ avea spezzato e la faretra a lato/ a quel protervo, e spennacchiate l’ali./ … era la lor vittoriosa insegna/ in campo verde, un candido ermellino/ ch’oro fino e topazi al collo tegna…” (dal Triumphus Pudicitiae).
In differenti incisioni rinascimentali la vittoriosa Pudicizia viene rappresentata alla sommità di un carro, contrassegnato dall’insegna dell’ermellino, trainato da unicorni, anch’essi simboli di castità, mentre sconfitto, ai suoi piedi, risulta il prigione Cupido con gli strali spezzati. Il carro trionfale è seguito dalle donne virtuose e fra loro, appunto Lucrezia, Penelope, Giuditta, Camilla ecc.
Valchiusa equivalente di Pudicizia
A rappresentare il Trionfo della Pudicizia, a volte, come nelle “carte” di Simone, è l’immagine stessa di Laura nel famoso Contado Venassino, le cui bellezze naturali furono appunto teatro del tormentato e ardente amore di Francesco. Il Contado comprendeva la sorgente sotterranea della Sorgue, la Valchiusa (Vaucluse) e molti castelli, raggruppati in nove Domini, o Baliaggi, ove il Petrarca amava raccogliersi, “alternando la sua stanza or di qua or di là da monti”.
Presso il limpidissimo fiume, meditando “sul perplesso e dubbio salire pel cammino della virtù”, avrebbe trascorso dieci anni in solitudine, nei pressi di Avignone, ma discosto da essa, in una dimora dov’erano due giardini, che gli consentivano d’apprezzare la “contemplazione solitaria della natura e… la calma profonda della campagna”, nutrendosi di frutta e pane nero, in compagnia del cane donatogli dal Cardinale Colonna.
“Chiare, fresche, e dolci acque/ ove le belle membra/ pose colei, che sola a me par donna;/ gentil ramo, ove piacque/ (con sospir mi rimembra)/ a lei di fare al bel fianco colonna;/ erba e fior che la gonna/ leggiadra ricoverse/ co’ l’angelico seno;/ aere sacro sereno/ ove amor co’ begli occhi il cor m’aperse:/ … (dal Canzoniere).
Una carta conservata nel Museo Civico del Castello Ursino di Catania, erroneamente attribuita al Bembo (Emporium N° 681 - Sett. 1951), ma appartenente alla scuola provenzale, mostra in basso una veduta panoramica della Valchiusa. In questo Trionfo della Pudicizia, il ritratto di Laura presenta un volto tondeggiante, fronte ampia, capelli biondi, occhi neri, proprio come nella descrizione poetica. Ella “domina”, idealmente quanto prospetticamente, la sorgente della Sorgue, sulle cui rive si affaccia la casa del Petrarca. E, dietro “‘l gran sasso ove Sorga nasce”, s’intravede Avignone. Il paesaggio è ancora molto simile alla realtà, perché si tratta della fedele ripresa d’un originale, probabilmente fra i più antichi.
Da Laura al Mondo
La carta Gringonneur, che, in migliore stato di conservazione, mostra un’evidente continuità di stile, ne fa altresì trasparire anche i limiti espressivi di copiatura. Delle due figure femminili, una si dimostra squisitamente ispirata, e gentile, quanto l’altra appare legnosa, puerile, se non proprio sgraziata. La palma della prima ha già assunto, nella seconda, una forma di bastone e l’allusione alla sua integrità, viene suggerita da un’aureola a punte, impiegata da Gringonneur anche per altre Virtù. Il Contado Venassino è dipinto con i nove baliaggi di cui si compone ed evoca quel susseguirsi paesaggistico di colline e picchi, caratteristico della Valchiusa.
Non un carro per elevare la Pudicizia, quindi, ma l’immagine di colei che, per Petrarca, impersonava quella moralità, assurta a dominatrice del panorama, in cui il poeta aveva trascorso tanto tempo a lottare contro le passioni. La cornice tonda postavi attorno ricorrerà nelle versioni successive, provocando dei travisamenti suggestivi pel fatto di andare a sconfinare nell’allegoria del Mondo (XXI).
Nel mazzo di Marziano da Tortona, realizzato da Michelino da Besozzo, lo schema illustrativo rimane abbastanza inalterato. Sotto la figura di Laura, un’imbarcazione, sulle rive un cavaliere, un pescatore e, sullo sfondo, torri immerse nei campi e castelli sulle colline.
La Tempesta di Giorgione, seppure riprenda, forse per quanto può riguardare gli enigmatici personaggi, il rilievo dell'Amadeo, sulla facciata della Cappella Colleoni (Condanna divina e destino dei progenitori dopo il Peccato originale), è anche interpretabile quale allegoria di Fortuna, Fortezza e Carità, e rimane tuttavia un “Paesaggio con fiume”, come il disegno leonardesco, (Paesaggio del Valdarno “Adì 5 daghosto 1473”), considerato il "primo” in assoluto di “pura ambientazione" nell'arte occidentale, in quanto svincolato da un soggetto sacro o profano, e trattato con dignità autonoma. Quasi come quel fulmine che potrebbe benissimo abbattersi sulla Torre del XVI arcano.
Già per i sumeri, l’Eden, che, nella scrittura successiva, conterrà alberi, in numero di due (della Vita e della Conoscenza), e fiumi (quattro: Tigri, Eufrate, Pison, Ghihon) a rappresentare le virtù cardinali (
Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza), come gli Evangelisti (Giovanni, Matteo, Luca,Marco), o i Profeti maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele), significa "parco o giardino in pianura". La sua simbologia numerologica determinerà la quadri-partizione medioevale dei parterres di un qualsiasi, ideale, hortus conclusus, un paradisus claustralis che anticipi sulla terra il definitivo e imperituro supercoelestis.
Avignone come Roma
Il Trionfo della Pudicizia del Bembo venne dipinto un po’ più tardi, quando già la fioritura rigogliosa della lirica medioevale, ancora permeata di spiritualità, veniva incalzata da nuovi incombenti valori e l’ameno panorama della Valchiusa, dominato dalla Laura petrarchesca, comincia a perdere il suo significato ideale, specialmente per i Visconti di Milano, di fronte all’attualità politica della città fortificata dei Papi.
Dal 1305 (e fino al 1378), nella storia del papato, si era aperto uno dei capitoli più travagliati, discussi e discutibili, in quanto ben sette epigoni di Pietro (più due antipapi: Clemente VII e Benedetto XIII) s’avvicendano al di fuori dalla sede romana, in una Provenza che apparve molto più sicura della “serva Italia di dolore ostello”, visto che Bertrand de Got, salito al soglio pontificio con il nome di Clemente V, dopo aver sospeso l'ordine dei Templari (1307), sposta la Curia pontificia nella città di Carpentras, all'interno di un feudo papale (o exclave pontificia) non soggetto, nel 1313, all'autorità di Filippo il Bello, ossia il Contado Venassino (lo Comtat Venaicin, in occitano), ovvero Comitatus Vendacensis e quindi Vendacinus, dal nome della città di Venasque o Pagus Vendascinus. Dopo il lungo Conclave di Lione, il suo successore Giovanni XXII, tre anni dopo, nel 1316, ritrasferisce e la sede papale e la Curia ad Avignone, dove già risiedeva la sua Corte e dove Bonifacio VIII aveva già fondato nel 1304 un’università. La maggior parte della zona era da tempo controllata dai conti di Provenza e, a tutti coloro che avevano assimilato la civiltà della Francia de “le Midi”, come italiani e guasconi, sia il clima, sia la lingua, erano piuttosto familiari. Con l’installazione della Curia, Avignone diventa la capitale della cristianità ed estende la sua influenza su tutti gli stati del vecchio continente. Per le sue strade, si incontrano i pellegrini in viaggio per l’occidentale Santiago de Compostela, per l’orientale Terra Santa, per le meridionali Roma e Loreto.
“Qui n’a pas vu Avignon du temps des Papes, n’a rien vu. Per la gaiezza, l’animazione ed il succedersi delle feste fu città unica. Dalla mattina alla sera era un susseguirsi di processioni, di pellegrinaggi, di strade addobbate con fiori ed arazzi, di arrivi di cardinali dal Reno, bandiere al vento, battelli pavesati, i soldati del papa che cantavano in latino; sulle piazze, il salmodiare dei fratelli mendicanti. Dall’alto in basso, tante piccole case che si addossavano al Palazzo Papale come api attorno all’alveare e poi il tic-tac delle merlettaie, il va-e-vieni delle spole che tessevano l’oro dei paramenti sacri, i piccoli martelli degli incisori di ampolle e di calici, i canti delle ricamatrici e più in alto, il rumore delle campane e sempre dalla parte del ponte si udiva qualche tamburo. Da noi, quando il popolo è contento deve ballare e cantare ed essendo le strade strette tutti si recavano con i pifferi ed i tamburelli sul ponte di Avignone e ballavano la farandola, al vento fresco del Rodano e si ballava e si ballava!... Ah, tempi felici! Quando le alabarde non erano taglienti e nelle prigioni si metteva il vino in fresco! Jamais de disette ; jamais de guerre… Voilà comment les Papes du Comtat savaient gouverner leur peuple; voilà pourquoi leur peuple les a tant regrettés !… ” (da: La mule du Pape di Alphonse Daudet, Lettres de mon moulin, 1887).
Le funzioni amministrative, politiche e spirituali della nuova sede pontificia, non avendo limiti territoriali o giuridici, si espandono ovunque la chiesa cattolica, anche se non più proprio “romana”, si sia già affermata. Il 20 agosto 1372, con l’assenso di Gregorio XI, venne firmato da Giovanna I di Napoli e Federico IV d’Aragona il famoso trattato di pace che pose fine al conflitto dei cosiddetti Vespri siciliani.
Divenuto luogo d’incontro e di negoziati per principi e re, acquisisce, inoltre, un nuovo volto cosmopolita e quest’ambiente internazionale sarà ben presto frequentato da grandi figure storiche come re Roberto di Napoli, Cola di Rienzo, Caterina da Siena. Naturalmente Francesco Petrarca sarà più o meno in rapporto con tutti i papi d’Avignone, compreso Urbano V, eppure, nel ritiro della Valclusa, canta la sua indignazione contro i cattivi timonieri della barca di Pietro.
“Fiamma dal ciel su le tue treccie piova,/ Malvagia, che dal fiume e da le ghiande/ Per l’altrui impoverir se’ ricca e grande,/ Poi che di mal oprar tanto ti giova;/ Nido di tradimenti, in cui si cova/ Quanto mal per lo mondo oggi si spande,/ In cui Luxuria fa l’ultima prova./ Per le camere tue fanciulle e vecchi/ Vanno trescando, et Belzebub in mezzo/ Co’ mantici et col foco et co li specchi./ Già non fostù nudrida in piume al rezzo,/ Ma nuda al vento, et scalza fra gli stecchi:/ Or vivi sì ch’a Dio ne venga il lezzo” (Rime sparse - sonetto CXXXVI).
Il lupo è sempre in agguato
La corruzione dilaga ovviamente e si concentra laddove le ambizioni e gli intrighi s’affollano maggiormente, e dove l’insolenza del lusso s’accompagna a dissolutezza o all’inclinazione a simonia e falsità.
“Il lupo mangerà gli armenti, poiché il pastore s’è addormentato. Un pastore saggio non deve dormire e deve tenere in guardia i cani poiché il lupo è sempre in agguato. Il Principe delle tenebre veglia ed il Papa dorme e sogna. I Prelati sono inermi. L’avidità li rende sordi e l’orgoglio gli acceca. È in Provenza che il papa si è istallato in Avignone come un signore. Là è la sua corte ma è la sua famiglia che si accaparra tutti i privilegi, le croci episcopali e le alte dignità. Il papa ha raggiunto lo scopo: d’ora in poi, come un falco, prederà tutto ciò che gli volerà attorno senza fatica. La sua casa è fortificata. Egli vive in essa e nessuno può parlargli se non porta una borsa d’oro. Egli ha guarnito il castello di merlature e decorato i propri appartamenti con scudi gentilizi. Questa è la sua occupazione. Egli dovrebbe invece andare di qua e di là dal mare presso i suoi fedeli, e controllare se la regola religiosa è rispettata, proteggendo la virtù e la verità. Istallato nel suo castello non imita la marcia di Cristo, sempre a piedi scalzi in estate come in inverno, col freddo e con la neve. La simonia e la corruzione corrompono le istituzioni della Chiesa. Al contrario di come dovrebbe non essere, nessuna chiesa, arcivescovado o abbazia priorato o canonicato sono ceduti senza compenso. È veramente ignobile vendere Dio e la sua Chiesa! In Avignone, si vende e si compra come al mercato. Mai un povero avrà una carica, se non comprandola a prezzo d’usura. Le qualità morali ed intellettuali non hanno valore. Il papa, nella sua maestà, pronuncia decisioni inappellabili e concede indulgenze, lontano dai suoi fedeli poiché teme di essere avvelenato, e rare sono le udienze concesse. Se l’oro e le perle che gli concedono di mangiare pane bianco, lo proteggeranno, la sua potenza durerà a lungo. Se si chiedono trasferimenti o cariche in seno alla chiesa, si vende e non si dona. Le decisioni si pagano a prezzo d’usura. Niente sarà concesso dalla corte pontificale senza una grossa somma di danaro, per remunerare uscieri, notai, cavalieri, ecc. È da sperare che il papa non sia al corrente della metà di questo mercimonio poiché sarebbe indecente. Il papa, fiore reale che lava le nostre anime, deve osservare dall’alto i problemi degli uomini. Egli ha due scettri. Uno temporale e l’altro spirituale: la croce e la spada a destra. Solo elevandosi moralmente potrà vedere tutti i paesi e le regioni del mondo... La cancrena di questa società acceca gli uomini di buoni costumi. Le greggi sono lasciate a se stesse. Gli armenti saranno uccisi e fatti a pezzi per la latitanza dei cani e del pastore ed il lupo avrà buon gioco…” (Sullo Stato del Papa - libera traduzione dalle strofe in lingua franco-provenzale - Dal trattato morale Mélancolies, sui vizi e le virtù delle classi sociali, di Jean Dupin, 1340).
Il poeta aretino si scaglia contro le miserie dei suoi tempi e vede l’umanità sull’orlo d’un abisso, meravigliandosi anzi della sconfinata pazienza di un Dio giustiziere che trattiene la propria collera rinviando il giorno del giudizio.
“Fontana di dolore, albergo d’ira,/ Scola d’errori et templo d’eresia,/ Già Roma, or Babilonia falsa e ria,/ Per cui tanto si piange et si sospira;/ O fucina d’inganni, o pregion d’ira,/ Ove ‘l ben more, e ‘l mal si nutre e cria,/ Di vivi inferno, un gran miracol fia/ Se Cristo teco alfine non s’adira./ Fondata in casta et humil povertate,/ Contra’ tuoi fondatori alzi le corna,/ Puta sfacciata: e dove ài posto spene?/ Negli adùlteri tuoi? Ne le mal nate/ Ricchezze tante? Or Costantin non torna;/ Ma tolga il mondo tristo che ‘l sostiene” (Rime sparse - sonetto CXXXVIII).
Una piccola Babilonia
Sulla carta del Bembo, Avignone si vede sostenuta da due cherubini alati. La prospettiva è quella relativa alla sponda opposta del Rodano, per mettere bene in mostra le potenti fortificazioni volute da Benedetto XII alla morte di Giovanni XXII. Anche se la carta fu probabilmente ricopiata da una medaglia dell’epoca, la somiglianza con altre vedute è davvero notevole. Secondo la volontà dei sette pontefici e dei due antipapi, Avignone doveva rappresentare la più bella città dello spirito, insomma una sorta di Gerusalemme celeste, e allo stesso tempo la più forte dimora mondana, non tanto quale Babilonia della Terra, ma in quanto, ovviamente, secondo lo storico francese del tempo, Jehan Froissart, la più facile da serbare e difendere.
“Se vuoi conoscere la bellezza di Dio, guarda quanta è la bruttezza dei suoi nemici. Non si deve andar lontano a cercarli: essi abitano in Babilonia, ogni suo quartiere brulica di questi vermi. Se vuoi conoscere la compostezza e il decoro dell’onestà, osserva quanta è la bruttura dei vizi, dei quali hai sott’occhio ogni tipo e ogni esempio... Ma tu godic he sei maestra di virtù, almeno nel loro contrario! Godi, dico, e gloriati di trovarti utile a qualcosa, nemica dei buoni, ospizio ed asilo dei malvagi, Babilonia pessima al mondo, gettata sulle feroci sponde del Rodano, non so se famosa o infame meretrice che ha fornicato con i re della terra! Tu sei proprio colei che vide in spirito il santo Evangelista. Sei proprio tu, dico, non altra, tu che siedi sopra molte acque, sia perché alla lettera sei cinta da tre fiumi, sia per la turba delle merci e delle ricchezze mortali sulle quali siedi lasciva e arrogante, immemore delle opere eterne, sia per ciò che espose colui che la vide: “Le acque sopra le quali siedi meretrice sono popoli, moltitudini, lingue”.“Una donna vestita di porpora e di scarlatto, adorna d’oro e di perle, con una coppa d’oro in mano piena d’abominazioni e dell’immondezza della sua fornicazione”: ti riconosci in queste parole, riconosci te stessa, Babilonia? A meno che ti tragga in errore il fatto che su quella fronte era scritto: “Babilonia la grande”, mentre tu sei una piccola Babilonia. Piccola certo, se si bada al giro delle mura, ma per i vizi, la bramosia degli animi, l’infinita cupidigia e il cumulo di tutti i mali, tu non sei soltanto grande, ma massima ed immensa. Ed anche quel che segue si adatta a te soltanto, non ad altri:“Babilonia, la madre delle fornicazioni e delle abominazioni della terra”. Madre empia di pessima prole, ché tutto quanto sulla terra c’è di abominazione e di fornicazione si genera in te, e mentre partorisci, continuamente tumido è il tuo ventre, pieno e gravido di simili parti…” (Dalle Sine Nomine 18 - Sine nomine, lettere polemiche e politiche, a cura di Ugo Dotti - Editori Laterza 1974).
La Gerusalemme celeste in Terra (?)
Frequentata da mercanti, giuristi, librai, scrittori eruditi, ecc., questa “Seconda Roma … di fama universale”, fu persino in grado di battere la propria moneta (i cosiddetti “fiorini” papali) al conio fiorentino, già nel 1327, all’epoca di Giovanni XXII. E successivamente, i banchieri fiorentini, ivi installati, presteranno ben 100.000 fiorini d’oro al re di Francia, Carlo V.
Se in Avignone si parlava provenzale, la città aveva tuttavia acquisito un carattere di semi-italianità, da intitolare una strada a Firenze: “rue de Florence”. Cosicché, viceversa, non c’è da meravigliarsi, se nelle Minchiate Fiorentine (Germini), ampliamento locale del mazzo dei tarocchi, la carta XXII (La Terra) è senz’altro riferibile ad Avignone ed al suo contado percorso dalle acque della Sorga e del Rodano.
Nelle Minchiate, le Virtù Cardinali sono raggruppate assieme (VI, VII e VIII), mentre stranamente la quarta, cioè la Prudenza, viene inserita erroneamente fra le tre Teologali: Speranza (XVI), Fede (XVIII) e Carità (XVIIII), con la conseguente attribuzione d’un valore più elevato rispetto alle compagne. Seguendo il tradizionale ordinamento di Bologna, cioè con le virtù raggruppate a livello basso e scambio di posizione fra ultima e penultima carta, anche la Laura del Mondo viene sottoposta al severo Giudizio, come del resto Temperanza, Forza, e la stessa Giustizia.
Laura (Laurea) è essa stessa una virtù, la forza dell’onestà e della morigeratezza, incorruttibile e resistente agli assedi della sensualità, alla stregua delle tante fortezze costruite dai papi avignonesi che arricchiscono il panorama caratterizzato dalle acque del Rodano e della Sorga... Il fiume, le sue rive alberate, quindi la terra, la torre, un paesaggio primordiale come nella Tempesta del Giorgione, per Salvatore Settis, dopo il Peccato originale.
Iconografia sacra
Nella cappella superiore della Torre di S. Giovanni, ad Avignone, Clemente V fece dipingere sulle pareti e sul soffitto, la vita di S. Marziale in tante piccole storie, alla graziosa maniera di Ambrogio Lorenzetti. Matteo Giovannetti da Viterbo, a cui si attribuiscono pure gli affreschi dell'Udienza, in specie la serie dei profeti, distribuì queste composizioni nei triangoli della volta, senza dimostrare d’avere alcun riguardo per l'architettura, tanto da far pensare, in questa maniera, alle figure di carte da gioco tenute in mano, a mo' di ventaglio, dopo la smazzata.
Le storie dei santi sono sempre esemplari e degne d’un contesto trionfale. San Marziale, uno dei settantadue discepoli di Cristo, opera il miracolo della resurrezione del compagno di viaggio Austricliniano.
Altre sante, come Marina e Margherita, vengono tra loro, a volte, confuse, tant’è che la loro memoria risulta celebrata lo stesso giorno, il 17 di luglio. Marina di Bitinia sarebbe stata una monaca che visse sotto abiti maschili in un convento per soli uomini. La martire d’Antiochia di Pisidia, Marina Margherita, alla pari della Madonna della Catena, protegge le partorienti, poiché, inghiottita dal demonio, apparsole sotto forma di drago, gli squarciò il ventre, fuoriuscendone vittoriosa. Lo squarcio delle fauci del drago richiama la rottura delle acque della partoriente, ma anche la Forza che immobilizza una fiera (il leone nemeo di Ercole), la Castità che trattiene Cupido, ecc.
Sul Vierzehn-Nothelfer-Altar (1498) del Münster St. Marien und Jakobus, a Heilsbronn (Baviera), il feto viene raffigurato come un deforme draghetto, o viceversa. Nella Schlosskapelle dei conti Schaffgotsch, Bad Warnbrunn bei Hirschberg (Slesia), Michael Willmann ne dipinge un’iconografia assai simile a quella mariana, con analoga catena che rende docile il drago demonio, e rimanda al cordone ombelicale con cui viene trattenuto alla madre l’infante.
Il cordone ombelicale o il laccio che trattiene il mostro, potrebbero ricordare le strisce di pelle dei Lupercali, februa o amiculum iunonis, usate a mo’ di frusta per provocare fecondità nelle giovinette in età da marito, purificare (februatio) dall’empietà, scacciare l’oscurità invernale, come nei riti carnascialeschi, prim’ancora che della candelora.
Margherita e la Madonna della catena, allora, trarrebbero la loro origine da un’unica figura di divinità della fertilità, protettrice dei boschi e delle messi, celebrata dai malati e dagli schiavi riusciti a liberarsi, la quale, secondo la mitologia latino-italica, corrispondeva a Feronia.
In seguito, nell’immaginario cristiano, gli schiavi divennero la rappresentazione dei morti, dei peccatori o dei non credenti, che venivano fatti risorgere, redenti o accolti tra i fedeli.
Il passaggio dal paganesimo lascia abbastanza invariate le pertinenze metaforiche. Una dea pagana protettrice delle messi, come Persefone, domina sul mondo dei morti (mostri e draghi) e viene appellata “dai molti ospiti”, ovvero Polixena, la cui grafia, a causa della rotazione consonantica, si modifica facilmente in Polissena, per poi convertirsi, o corrompersi, con la dentale intermedia, in Polìstena (un comune in provincia di Reggio Calabria, il cui etimo trova un’invertita corrispondenza in Xenopolis, città di stranieri, della vicina Sinopoli).
In epoca cristiana, viene sostituita da un’iconografia analoga, ma più consona al nuovo credo, cosicché, da Madonna, partorisce e “libera”, da Santa, perisce nelle fauci del drago, per risorgerne trattenendo il male incatenato ai suoi piedi. E questa rappresentazione designa la località che porta quel nome, fin quando l’araldica non la sostituisce analogicamente. La catena delle Acque diventa un fiume, l’Albero è la Terra, la torre è la fortezza, la forza, o la castità…
Il blasone della città provenzale di Nîmes (Col Nem: Colonia Nemausus), capitale della confederazione tribale celtico-gallica di Volcae Arecomici, presenta un coccodrillo, il mostro, incatenato a un albero. La cittadina lucana di Rotonda al posto del mostro, drago, demonio, ha tre cime di monti, l’immancabile fiume (in luogo della catena) e la torre. Nell’antico stemma monarchico della cittadina portoghese di Vila Chã de Ourique, tre sono le torri sui flutti, e dalla parte opposta dell’albero un personaggio, oscuro, che pare un tronfio, più che trionfante, araldo di vittoria.
Aria, Acqua, Terra; Fortuna, Fortezza, Carità; Mondo, Forza, Prosperità; Castità, Terra, Acqua; Femminilità, Fierezza, Mondo; Donna, Demonio, Catena…
Collage… Découpage…
Eppure, Torre, Fiume e Albero, come ci hanno dimostrato Leonardo e Giorgione, fin dal principio, rimangono il “paesaggio” naturale (e paradisiaco) per antonomasia!
Bibliografia essenziale
Catoni M. L., Ginzburg G., Giuliani L. e Settis S. Tre figure. Achille, Meleagro e Cristo, Feltrinelli, Milano 2013
Fusi R. e Pio R. Tarocchi un giallo storico. Le carte perdute e ritrovate, Bonechi (Edizioni Il Turismo), Firenze, 2001.
Ierace G. M. S. Travestitismo femminile: Il culto bizantino delle Sante “che si fanno maschi”, Kemi-Hathor, XIX, 104, 41-53, Settembre 2001.
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Ierace G. M. S. Ulla Peppa…, http://www.letarot.it/page.aspx?id=405
Ierace G. M. S. Torna, questa libagione ti spetta, in corso di pubblicazione.
Settis S. La tempesta interpretata. Giorgione, i committenti, il soggetto, Einaudi, Torino 1978.