Di Giuseppe Maria Silvio Ierace
Gioele predice che gli anziani faranno sogni e i giovani avranno visioni e tutti, uomini e donne, diventeranno profeti: “E, dopo questo, avverrà che io spanderò il mio spirito sopra ogni carne, e i vostri figliuoli e le vostre figliuole profetizzeranno, i vostri vecchi avranno dei sogni, i vostri giovani avranno delle visioni. E anche sui servi e sulle serve, spanderò in quei giorni il mio spirito. E farò dei prodigi nei cieli e sulla terra: sangue, fuoco, e colonne di fumo. Il sole sarà mutato in tenebre, e la luna in sangue prima che venga il grande e terribile giorno dell’Eterno…” (2, 28-31).
Secondo il Canone e la teologia ebraica, nella Scrittura, dopo la Torah (il Pentateuco di Mosé), e prima degli Scrittori (Ketubiim), la gran parte dei libri, che noi chiamiamo storici (e profetici), sono indicati come Nebiim, perché è “profetica” tutta la storia di un’umanità condotta al Giudizio finale. Il Canone cristiano distingue invece i Profeti, per la loro specificità, in quattro “maggiori” (Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele) e dodici “minori” (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia). Si tratta di una ripartizione, e successione nient’affatto “cronologica”, ma soltanto “quantitativa”, dipendente cioè dalla lunghezza del testo. Non è tanto il contenuto del vaticinio a contare quanto la sua corposità e consistenza.
La lettura esegetica messianica dei teorici dell’Antìtypon (occorrenza, contingenza) o della “profezia che si avvera” (per necessità) avrebbe aggiunto ai “profeti classici”, colui che è ritenuto l’autore dei Salmi, il re Davide. Così nel Medioevo si è composta, confluendo poi anche nella liturgia romana funebre, la famosa sequenza: “Dies Irae, dies illa/ solvet saeclum in favilla:/ teste David cum Sybilla” (Il giorno dell'ira, quel giorno che dissolverà il mondo terreno in cenere: come annunciato da Davide e dalla Sibilla). Avviene così che per avvalorare accadimenti trascorsi se ne attribuisce la previsione sia ai profeti ufficiali, di tradizione ebraica, che agli indovini pagani, o comunque precristiani.
Oracula Sibyllina
Gli Oracula Sibyllina, o meglio Pseudo-sibillini, scritti in lingua greca e in esametri, sono 12 libri (su 14 originali, perché mancano quelli numerati con IX e X) di contenuto assai eterogeneo, ma prevalentemente profetico, circa eventi futuri, catalogati tra gli apocrifi dell’Antico Testamento.
La sibilla cumana, notoriamente connessa ai Libri profetici di Roma antica (per intenderci, quelli favolisticamente offerti al re Tarquinio, che raccoglievano i responsi oracolari conservati nel tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio), viene posta in relazione con una donna autrice di oracoli (gynè chresmològos), di nome Sabbe, nata presso gli ebrei di Palestina, che secondo il Periegete Pausania sarebbe stata figlia di Beroso ed Erymante. Alcuni la chiamano Sibilla Babilonese, altri Egiziana. Del resto, l’esistenza di una Sibilla ebraica, intorno alla metà del II secolo, è attestata dall’ampia produzione oracolare giudaica che circolava pure tra gli ambienti cristianizzati, in cui veniva perfino imitata, con i dovuti aggiustamenti, mediante la correzione o l’aggiunta di testi, allo scopo di propagandare il messaggio evangelico.
Leritrea Erofile
Quella di Pausania suona come una sorta di “reductio” della tradizione di alcune delle numerose Sibille al coagulo in un unico personaggio, l’eritrea Erofile, avvalorata dalla singolare composizione epigrafica proveniente dalla sede a lei sacra, dedicatale a Eritre (Litri), una delle città della dodecapoli jonia, situata in Asia minore, di fronte all’isola di Chios.
Plutarco, nel De Pythiae oracoli, la dice da Eraclito descritta: “con bocca furente fa intendere una voce senza sorrisi, senza ornamenti, senza profumi, ma che tuttavia valica mille anni, per virtù del dio” (6, 397 A).
L’auto-proclamazione della profetessa ispirata da Apollo (Phoìbou pròpolos chresmològos), figlia della ninfa naiade e di Teodoro, ne conferma la tipica ascendenza a metà tra l’umano e il divino. “Seduta su questa roccia, enuncio la serie dei miei oracoli, annunciando ai mortali i mali che li attendono. Durante una vita di tre volte trecento anni ho conservato la verginità e percorso tutta intera la terra”.
Nella sua estrema longevità, questa profetessa, che si preoccupa solo di preannunciare sventure, transita per un arco di secoli così ampio da potersi permettere di rendersi pellegrina attraverso l’intero oikoumene allora conosciuto. E questa durata nel tempo e mobilità nello spazio costituiscono i connotati peculiari di una Sibilla che si dice “unica”, ma che comunque si mostra “molteplice”, potendole venire assimilate, nei vari momenti storici e in luoghi disparati, tutte le numerose altre profetesse che, di volta in volta, possedute dalla divina ispirazione, prestano la loro parola a una qualche rivelazione, di tipo apocalittico, sostanzialmente identica sia alle precedenti che alle future. E certamente non soltanto perché le profezie della Sibilla Eritrea avvenivano su foglie disposte in modo che le lettere iniziali di esse formassero sempre una parola, da cui poi la denominazione di acrostico.
Varrone, di Sibille, ne elenca dieci: la Persia, di cui ha scritto Nicanore, lo storico del Macedone; la Libyssa la cita Euripide nel prologo dell’altrimenti perduta “Lamia”; della Delfica parla Crisippo, nel suo testo sulla divinazione; la Cimmeria viene citata da Nevio nei libri sulla guerra punica; l’Eritrea ha predetto la distruzione di Troia; la Samia la nomina Eratostene; la Cumana Amaltea o Demofile ha offerto i libri al re Tarquinio; l’Ellespontica, secondo Eraclide, vaticinava a Marpesso, al tempo di Solone e Ciro; la Frigia era ad Ancira e infine Albunea, la Tiburtina.
Dafne
Le storie individuali appaiono quasi “umane” e la mitografia va ricondotta al valore di narrazione. Dafne, figlia di Tiresia, rapita dagli Epigoni giunti a Tebe, condotta a Delfi, viene consacrata ad Apollo. Essendo l’espressione linguistica per la condizione di essere ispirati sibullaìnein, venne appellata Sibilla.
“Costei che non meno del padre – dice Diodoro – conosceva l’arte divinatoria, mentre si trovava a Delfi, sviluppò ancora di più la sua abilità: dotata d’una meravigliosa natura, scrisse oracoli d’ogni genere, d’eccellente composizione, e dicono che anche il poeta Omero si sia appropriato di molti suoi versi e ne adornasse la propria opera poetica; poiché era molto spesso ispirata (entheazoùses) e rivelava oracoli, dicono che venisse chiamata Sibilla, giacché il verbo relativo all’essere ispirati è sibullaìnein” (IV, 66, 5-67 l).
La divina possessione appare il risultato d’un’equazione (entheàzein = sibillaìnein), confermata dal verso 61 dell’Hippeîs di Aristofane (àdei dè chresmoùs o dè géron sibullià, “declama oracoli e il vecchio va pazzo per la sibilla”), per quello che sarebbe dovuto essere uno stile profetico coincidente con lo statuto di entheos, emergente ogniqualvolta a pronunciare oracoli in una condizione di possessione divina sia un personaggio di sesso femminile. In aggiunta, la valenza profetica assurge a dimensione poetica, di modo che sia proprio carattere del vate il vaticinio.
Gli esempi di Diogeniano
Nel De Pythiae oraculis di Plutarco, Diogeniano evoca genericamente la predizione dei Sibulleìa relativi a guerre e catastrofi naturali. E allo scettico Boeto, l’interlocutore obietta: “Eppure le numerose città greche distrutte e disertate, le armate barbariche che si affacciano alle nostre frontiere, e le cadute degli imperi rendono ampia testimonianza alle profezie. Ecco qui i disastri di ieri e di oggi, di Cuma e di Diceàrchia: non furono da tempo oggetto di vaticinio e di canto, attraverso i carmi sibillini?... Aggiungi eruzioni di vulcani, ribollimenti marini, getti di pietre e fuoco a opera di venti e stermini di città, così grandi a un tempo e così nobili…” (398 D, traduzione di Vincenzo Cilento).
Ovunque si trovino rovine e spargimento di sangue è possibile rintracciare una previsione che li riguardi!
Il postulato viene illustrato in dettaglio da predizioni particolari: “Ecco i versi oracolari che si riferiscono alla zoppia di Agesilao: ‘Fa ben attenzione, o Sparta, per quanto tu sia altezzosa, che non nasca da te, vigorosa di gambe perfette, un re claudicante, poiché per lungo tempo inattesi travagli verranno ad assalirti, quasi in onda di guerra travolta a sterminio di uomini’. Aggiungi ancora i versi sull’isola che il mare fece affiorare dinanzi a Tera e a Terasia, e riguardanti la guerra tra Filippo e i Romani: -Ma quando la discendenza dei Troiani avrà il sopravvento sui Fenici nel conflitto, allora avverranno incredibili prodigi: il mare brillerà di fuoco immenso, e con scoppio di tuoni le folgori balzeranno in alto attraverso le onde, confusamente tra schegge di roccia. Le folgori cesseranno, ma la roccia resterà fissa nell’oceano, formando un’isola innominata ai mortali, e il più forte sotto i colpi accaniti dei più deboli cederà!-”.
Nella sua Descriptio Graeciae, anche Pausania, periëgëtës , registra l’oracolo che si riferisce alla sconfitta di Filippo da parte dei Romani (VII, 8, 8-9), come quello relativo al terremoto di Rodi (II, 7, 1), alla disfatta ateniese ad Aegospotamos (X, 9, 11), o alla battaglia di Thyrea tra Argivi e Spartani (X, 9, 12).
Minacce di disgrazie descritte con linguaggio immaginoso, allusivo, ma sostanzialmente oscuro, se non fossero lette ad avvenimenti già avvenuti. Così come per l’eruzione del Vesuvio e la morte dell’imperatore.
Tespesio, 'Throbates'
Lo stesso Plutarco, nel trattare del mito di Tespesio (De sera numinis vindicta: 29, 566 D) ricorda come, grazie all’eccezionale esperienza visionaria dell’anima momentaneamente separata dal corpo, il reprobo di Soli compie un viaggio attraverso varie sedi cosmiche dell’aldilà. Giunto al livello da cui promana la luce del Tripode delfico, non riesce a sostenerne il fulgore ma ode “la voce acuta d’una donna che in versi pronunciava, assieme ad altre profezie, pure la data della sua morte”. Il daimon che guida l’anima di Tespesio, gli spiega “che era la voce della Sibilla, la quale andando attorno sulla faccia della luna, profetava sugli eventi futuri”. Tra le parole udite vi sono quelle a proposito dell’attivo vulcano campano esplosivo e della distruzione, sotto la lava, della romana Puteoli, antica Diceàrchia, nonché un versetto sull’imperatore di allora che diceva: “Pur essendo valente, a causa d’un morbo, perderà il regno”.
In base a tale testimonianza, sarebbe esistito, nell'antica Grecia, un gruppo di praticanti spirituali individuabili quali sciamani o più propriamente 'iatromanteis' (uomini di medicina), termine questo coniato a partire da 'iatros' (guaritore). Gli esempi includerebbero Pitagora di Samo, Empedocle di Akragas, Epimenide di Creta, Aristea di Proconneso, Hermotimus di Clazomenae, Abaris Hyperboreos nonché tutti quei Bakis (da bazo, parlare), con cui venivano genericamente indicati, analogamente alle ispirate Sibille, i dispensatori di oracoli di sesso maschile che fiorirono in Ellade dall’ottavo al sesto secolo a. C.: dall’anonimo beota, originario di Eleon, agli arcadi Aletes, Cydas, od Onomacrito, o all’ateniese Pisistrato. Oltre a Bakis, Cresmologos, Iatromanteis, erano in uso altri appellativi per definire questi soggetti: 'Kathartes' (purificatore), perfino 'Thaumatourgos' (operatore di miracoli), ma più propriamente 'Throbates' (viaggiatore dell’aria, in spirito), compiendo i loro spostamenti nello spazio e nelle altre dimensioni, mediante una tecnica di trance chiamata 'apnous' e tradotta solitamente con catalessi, incubazione, ed estasi in Plutarco.
La Sibilla giudaica
L’ultima identità dell’esordiente Sibilla giudaica non si esaurisce nell’assunzione di una veste nuova e di un nome diverso, ma implica una metamorfosi più o meno profonda dei contenuti medesimi del suo messaggio divenuto espressione della concezione monoteistica biblica e perverso risultato di una trasgressione dei generi (metabasis eis allogenos). La qualità stessa della letteratura sibillina è squisitamente legata alla rivelazione e si connota di un inevitabile, per l’analisi storico religiosa, riferimento alla coeva produzione di natura apocalittica.
Il modello oracolare sibillino viene prescelto rispetto ad altri per rifrangersi in una molteplicità di figure diverse, accomunate però da alcuni tratti distintivi, come ha notato Emilio Suàrez de la Torre, contrassegnati dalla natura di creazione letteraria piuttosto densa di stratificazioni (profeta poeta, vate vaticinante). Cosicché, sia pur derivata dalla sfera d’influenza apollinea, diventa emancipata fonte vagante di mistero, ispirata dalla possessione, ma nello stesso tempo libera da condizionamenti istituzionali, in quell’urgenza di parlare, anche senza essere interrogata, di incombenti punizioni divine. Quella “bocca furente” (mainòmenos stòma) della descrizione eraclito-plutarchea, in una prospettiva d’invasamento, diviene vaticinio autonomo.
Nel prologo del IV libro degli Oracula Sibyllina, chiaramente si sconfessa l’identità pagana, esprimendosi la sacerdotessa con queste esplicite parole: “Popolo dell’orgogliosa Asia e dell’Europa, presta orecchio/ all’infallibile verità che sto profetizzando/ attraverso la mia bocca dalla voce di miele, dal nostro santuario./ Io non sono una portatrice d’oracoli del falso Febo, che i vani/ uomini chiamano dio, e falsamente descritto come veggente…”.
Il verbo proferito appartiene al Dio unico, anche se lo trasmette in maniera del tutto inconsapevole. Così, nel prologo al II libro: “Quando davvero Dio fece cessare il mio canto perfettamente saggio/ avendo io invocato molte cose, Egli dunque ancora pose nel mio petto/ un discorso delizioso di parole meravigliose. Io pronuncerò quanto segue con tutta la mia persona in estasi/ poiché non so quel che dico. Ma Dio mi ordina di proferire ogni cosa”.
La modalità del responso è assolutamente involontaria. Nel Libro III (1, 7): “Benedetto, il Celeste, che tuoneggia dall’alto, che hai i Cherubini/ come un tuono. Ti scongiuro, dammi un po’ di riposo / a me che ho profetizzato la verità infallibile, poiché il mio cuore è stanco dentro di me. Ma perché cuore mio ti agiti ancora? E perché il mio spirito/ è sferzato da una frusta, spinto dall’interno a proclamare/ un oracolo a tutti? Ma pronuncerò ancora ogni cosa/ quanto Dio mi ordina di dire agli uomini”. La profetessa sta in soggezione di fronte alla dominante ispirazione divina, che la coglie quando meno se l’aspetta, subitaneamente e in totale costrizione.
Stirpe noachide
La tradizione monoteistica giudaica si appropria del carisma profetico di una figura di incomparabile prestigio nell’ambiente culturale ellenistico. “Io dico queste cose a voi, avendo lasciato/ le lunghe vallate babilonesi dell’Assiria, in preda alla frenesia (oistomanès), un fuoco inviato alla Grecia i mortali dicono che sono di un altro paese,/ una senza vergogna, nata da Eritre. Alcuni diranno che sono Sibilla nata da Circe come madre e Gnostikos quale padre, / una folle bugiarda. Ma quando ogni cosa accadrà, allora/ vi ricorderete di me e non più a lungo ognuno dirà/ che sono folle, io che sono una profetessa del grande Dio. Perché Egli non mi ha rivelato ciò che ha rivelato in passato ai miei genitori/ ma ciò che è accaduto prima, quelle cose mio padre me le ha raccontate/ e Dio ha messo tutto del futuro nella mia mente/ sicché profetizzi sia il futuro che le cose precedenti/ e le racconti ai mortali. Poiché quando il mondo fu sommerso/ dalle acque, e non un singolo uomo approvato fu lasciato/ navigare sulle acque in una casa di legno/ con bestie, con uccelli, affinché il mondo potesse ancora essere riempito/ io ero sua nuora e del suo sangue./ Le cose che sono in primo luogo accadute a lui e tutte le successive sono state rivelate/ così tutte queste cose provenienti dalla mia bocca sono riconosciute veritiere” (Libro III, 809-829). La veggente rivendica la sua appartenenza alla stirpe noachide e detta previsioni in ricordo degli eventi accaduti che si ripeteranno secondo un ciclo di eterno ritorno.
L’osmosi tra diverse culture e differenti tradizioni religiose, peraltro assai distanti, non può affatto essere spiegata riducendola al semplice espediente tattico d’una superiore strategia d’indubbio intento propagandistico da parte di certi ambienti giudaici verosimilmente alessandrini e ormai in qualche modo ellenizzati. Nella logistica gestionale interna d’insieme, è pur sempre possibile rintracciare motivazioni lontane, provenienti da quei germi di universalismo già in buona parte presenti fin dalla più antica tradizione profetica, fruttificati però successivamente nell’alveo di quel tardo riconoscimento che una rivelazione, sensibile, attenta e sollecita verso le umane vicende, possa proficuamente estendersi al di fuori dei ristretti e chiusi limiti del popolo degli Eletti, allora anche in direzione dei Gentili, in quanto i Giusti lo sono nelle nazioni: Chasidei Umot HaOlam.
Lamedvavnikim
Nella tradizione ebraica, infatti, a rispettare il patto che i loro antenati hanno stipulato con Dio e, dunque, i precetti delle 613 mitzvot e le numerose norme contenute nella Torah, Mishnah, Gemara e Halacha, devono essere esclusivamente gli ebrei, mentre i non ebrei sono più semplicemente tenuti a non violare i principi etici delle leggi noachiche (non uccidere, non commettere adulterio, avere un ordinamento legislativo e giudiziario, ecc.). Secondo il Talmud, anzi, ogni generazione sforna lamedvavnikim, uomini giusti in numero di 36, individualmente sostituiti dopo la morte, perché “Quando il giusto viene al mondo, il bene pure viene e la sventura è scacciata ma quando il giusto se ne va, è catastrofe e il bene lascia questo mondo” (Tosefta, Sofa 10:1). Dalla loro condotta dipende il destino dell’umanità, in quanto “Al passaggio della bufera, l'empio cessa di essere, ma il giusto resterà saldo per sempre” (Proverbi, 10:25). Sia pur svolgendo lavori umili, non esiterebbero a esercitare il loro compito, nel momento in cui dovesse incombere una minaccia su Israele, per poi modestamente scomparire di nuovo nella clandestinità.
Lamed-Vav Tzaddikim: Lamed, dodicesima lettera dell'alfabeto ebraico, numericamente equivalente a 30, unita a vav, la sesta lettera, che corrisponde al numero 6, nel sistema alfanumerico, rappresenta la cifra 36, in lettere lamed-vav; tzaddikim significa “uomini giusti”, quindi Lamed-vav tzaddikim vuol dire 36 uomini giusti. “Ci sono almeno 36 uomini giusti (Tzaddikim) in ogni generazione che manifestano di contenere la Shechina (Presenza Divina). È scritto, felici coloro che attendono lui (lo) “ (Abaye, IV sec., Talmud - Mas. Sanhedrin 97b). Il valore numerico del pronome lo, che significa “Lui”, è 36 ed è relativo a un verso di Isaia 30:18 (“Eppure il Signore aspetta per farvi grazia,/ per questo sorge per avere pietà di voi,/ beati coloro che sperano in lui!”), interpretabile allora come: beati coloro che sperano nei 36, nel senso di fare affidamento su questi “uomini giusti”. Invece, seguendo un passo della Zohar, che si richiama a un verso del profeta Osea (10:2): “Il loro cuore è falso”, cioè diviso ( perché finge di essere attaccato al Signore, ma in realtà è con Baal), gli “uomini giusti” potrebbero essere raddoppiati in 72, i 36 in Eretz Israel più gli altri della Diaspora. Il sistema cabalistico d'interpretazione delle scritture che sostituisce a una parola un'altra, purché le lettere che la compongono restituiscano la stessa somma numerica (Gēmaṭriyā), trae il valore numerico di 72 dall'espressione “il loro cuore”; diviso, quindi 36. Ma a questa cifra si giunge pure partendo dall'astrologia arcaica, secondo la quale i 360 gradi in cui è ripartita la misura dell'Universo, verrebbero suddivisi in 36 porzioni corrispondenti ad altrettanti saggi preposti alla sorveglianza dell'Universo intero. E la radice quadrata di 36, il numero 6, nella filosofia alessandrina, è il simbolo della creazione del mondo.
La replica di Boeto
Alla cosmologia che si intreccia alla cresmologia si riallaccia il discorso dello scettico Boeto, razionale studioso di geometria, per controbattere, nel De Pythiae oracolis di Plutarco, all’interlocutore Diogeniano: “Ma quale processo naturale, amico mio, non è in debito del tempo? Cosa c’è di straordinario e inaspettato in terra, sul mare, nelle città o fra gli uomini, che non possa essere predetto, per poi accadere realmente? Anzi, questo non è quasi mai un predire, ma un dire, o piuttosto un gettare e disseminare discorsi senza fondamento nell’infinito: vagano poi, e talvolta si imbattono nella sorte, che spontaneamente coincide con loro. C’è una bella differenza, a mio parere, tra il fatto che accada ciò che è stato detto e il dire ciò che accadrà… Può darsi che per caso qualcuna di esse si verifichi; ma comunque, nel momento in cui vengono pronunciate, queste profezie sono menzognere, anche se poi, per accidente, finiscono per avverarsi”.
All’interno di questa citazione, Valerio Meattini (Oltre il giogo del tempo, in “Il Ludus Triumphorum o Tarot: carte da gioco o alfabeto del destino”, a cura di Rossi P. A. e Li Vigni I., Nova Scrpta, Genova 2011) rintraccia l’essenza delle dispute tra concezioni dinamiche e statiche delle epoche, filosofia dell’infinito e teorie di eterno ritorno. Tracce del futuro vanno ispezionate in base alla verisimiglianza e l’esplorazione non può essere condotta al di fuori di un divenire storico. Per cui la chiaroveggenza diventa una forma di riscatto dai legami di costrittivo percorso a senso unico del trascorrere del tempo che potrebbe farci, anche se solo momentaneamente, partecipare alla funzione che Eaclito attribuiva agli eggregoroi, vigili e all’erta.
Per la razza degli uomini, gli anni non sono uguali tra loro e ogni hanno sembra essere più breve del precedente. Come quando le ombre cominciano ad allungarsi, il corso del sole si fa più breve per ciascuno di noi. Il diurno Apollo, per sua abitudine atavica, lascia per tre mesi il suo posto al Dioniso accenditore di fiaccole notturne.
Poi verrà il giorno in cui John Milton scriverà, nell’Ode sul mattino della natività di Cristo: ”The Oracles dumm,…/ Apollo from his shrine/ can no more divine,…” (Gli oracoli tacciono… Apollo dal suo sacrario più non vaticinerà abbandonando con vano grido l’erta di Delfi). Qui la lettera sacra è, da sempre, la E di “sei (solamente Tu e nessun’altro)”, prim’ancora d’essere il valore numerico “cinque”, “se” particella interrogativa dei quesiti o quella augurale, in senso desiderativo. In tutti i casi, nel congiungere una proposizione subordinata, come condizione o come circostanza, d'un'altra proposizione, pure nel connettere frasi, parole, cose ed eventi, rende linguisticamente il nesso causale su cui si fonda ogni conoscenza.
Il VII Arcano dei Tarocchi
Sopra la necessità “non può esservi sicurezza maggiore”, afferma Galilei, nel Dialogo sui massimi sistemi.
“Il signore, cui appartiene quell’oracolo che sta a Delfi, non dice, né nasconde, ma accenna”, chiarisce Giorgio Colli ne La sapienza greca (Adelphi, Milano 2010). Ananke e tyche, necessità e contingenza sono indifferenti agli occhi divini, semmai la “mediazione” (passiva) vaticinante vagamente li interpreta, così come “colui che parla in vece di altri”, il profeta del Timeo di Platone, a cui, nel Fedro (244 a-c), viene apertamente attribuita quella “mania” folle che procura sapienza ma non padronanza di sé.
Parlando dello “xenòn”, comune a tutte le cose, Eraclito intende un sottile, invisibile, occulto “concatenamento” in ogni dove nascosto, che fermenta, allieta, addolora, stordisce. Solo chi saprà arrendersi a quel fluido, potrà vedere “prima” e “contro” tutte le eventuali opposte evidenze. Anti-, tra-, pre- vedere potrebbe essere un passo in avanti verso il prov-vedere di chi è in grado di farlo (… e Dio vede e provvede).
Orazio sconsiglia a una “mente candida” (Leukonoe) di scoprire cosa si cela nell’imminenza dei giorni: “Tu non chiedere - non è concesso sapere -/ quale fine a me e quale fine a te/ gli Dèi abbiano concesso, o Leuconoe, e non/ consultare i calcoli babilonesi./ è meglio patire ciò che sarà./ sia che Giove ci attribuirà molti inverni/ O che questo sia l'ultimo…” (Odi I, XI).
La sorveglianza va rinnovata sulla “garrula” mente, di cui parlerà il Cusano, che ci induce a vagheggiare superficialmente e a sproposito sull’inestricabile selva degli accadimenti: “sii saggia – invita Orazio - e filtra i vini e recidi/ ogni lunga speranza che oltrepassi/ il breve spazio del tempo immediato”.
Nelle Upanishad compare un ammonimento analogo: "L'aspirante deve tenere la mente sotto perfetto controllo, come un cocchiere tiene alle redini i destrieri bizzarri" (Svetasvara, II, 9). “Conosci te stesso, Nulla di troppo, Non desiderare l'impossibile, Ottima è la misura”, che siano aforismi proferiti da Talete o da Chilone, o da qualcun altro degli eptà sophòi (sette saggi), meglio non potrebbero sintetizzare il sempiterno insegnamento iniziatico.
L’Arcano VII dei Tarocchi, che si scompone nel quattro e nel tre d’ogni compimento, ricorda sia l’adagio delle Upanishad sia il mito della biga alata di Platone, e con essi l’applicazione della moderazione. Già nell'Etica Nicomachea, Aristotele affermava “mèson te kai àriston” (il mezzo è la cosa migliore), ribadita da Orazio, nelle Satire: "est modus in rebus" (c'è una misura nelle cose), comprovata da Ovidio, nelle Metamorfosi: "medio tutissimus ibis " (seguendo la via di mezzo, camminerai sicurissimo).
“Ciò che si estende” dà l’idea della lunghezza del “tempo” e dell’apertura dello spazio (da cui temp-lum), che poi consente di ampliare la visione, e quindi pres-agire. L’espansione della coscienza vaglia la situazione, e, con un presago agire da auriga augure, si comporta quale medius currens (Mercurio-Hermes-Apollon-Helios-Logos), la rende “sacra”, alla stregua di un iranico Mithra, Mesoromasdes, attivo e regale mediatore (mesìtes), nato nel solstizio d'inverno da Pater Saturnus, nonché forza della luce all’uscita dall’Equinozio di Primavera dalla costellazione del Toro verso quella dell’Ariete.
Collocato tra il luminare superiore e quello inferiore (Cautes e Cautopates), è “triplice” nel suo osservare, preservare e promuovere il regolamento del conflitto tra l’eterno Ohrmazd e il suo avversario cosmico Ahriman, e, nello stesso tempo (e con medesima motivazione) “duplice” nell’equilibrato giudicare e combattere contro il male e il maligno.
Chi si posiziona nel punto cruciale dell’adempimento di un atto fondamentale può dunque costituire di per sé una conclusione, che avvenga o per frattura, dispersione o per rinnovamento e salvezza, come per l’avestico Saoshyant, nel Frashokereti dell’escatologia zoroastriana.
Il periodo di durata permette l’occasione, e dunque l’opportunità di coglierla “temp-estivamente”. Come in Cusano, media temp-estas non indicava ancora una precisa temp-orizzazione, ma un presentimento, nel proporsi come una specie di sintomo della consapevolezza di un cambiamento, il pronostico inquadra, con più o meno grande imminenza, una prossima congiunzione tra contingenza e necessità.
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